11 ago 2010

Dieci anni, anzi, nove

Such a lonely day,
and it’s mine.
The most loneliest day of my life.


Poche centinaia di metri separano casa di Massimo dalla stazione di Rivello, perlomeno stando a quanto dicono le indicazioni che Letizia ha stampato da internet prima di partire.

In quel viaggio che l’ha portata nel basso della più bassa padana, accompagnata dalle parole di Serj nel lettore mp3, Letizia ha visto scivolare via alberi, fiumi, campi di calcio e passaggi a livello in una scialba sequenza di fotogrammi provinciali incapaci di lasciare traccia nella sua memoria.
Si alza, cammina lungo lo spazio lasciato dalle due file di sedili ai lati, e si ferma nell’intercapedine tra il suo vagone e quello successivo.
Non potrebbe fumare, ma chissenefrega. Non c’è nessuno su quel regionale lercio, senza aria condizionata e con i finestrini bloccati.
A vederla così, una sigaretta che sbuffa stanca in una mano e qualche foglio spiegazzato nell’altra, con il suo zaino di canapa verde sopra alla maglietta dei Guns n’ Roses stinta da anni di illusioni, sembra una studentessa reduce da una manifestazione.
Ma Letizia l’età delle manifestazioni l’ha passata da un pezzo, e tutti gli anni che sono seguiti se li è messi su quelle spalle esili senza fare un fiato.
Anni vissuti in un tormento tagliente, troppo doloroso per essere messo da parte; tagli che non le hanno lasciato nemmeno un pezzettino d’anima intero.
Non ha pensato alle parole da dire, è sicura che saliranno spontanee dallo stomaco alla bocca quando sarà il momento, e senza incastrarsi tra i denti usciranno in un ordine più o meno corretto.
È l’ora di pranzo quando Letizia riprende in mano zaino e giacchetto di jeans e le porte si aprono sulla stazione più piccola che abbia mai visto. Sudicia e stretta come il buco del culo di una gallina, che come il buco del culo di una gallina si allarga a dismisura per far uscire un mondo troppo grande.
Le strade sono deserte; dalle persiane scrostate filtra la sigla di un telegiornale.
Fa caldo in quel cazzo di paese, un caldo che puzza di provincia.
Anche quel pomeriggio di quattordici anni prima, quando aveva accompagnato la madre ad assistere alla finale del torneo di Eccellenza, faceva caldo.
Ma a diciannove anni tutto è più sopportabile di quanto non lo sia a trentatré, riesci persino a goderti una sigaretta nonostante l’aria intorno a te potrebbe strangolarti da un momento all’altro.

When I look into your eyes
I can see a love restrained

«Da quando ti piace il calcio?» - aveva domandato Letizia a sua madre accendendo una sigaretta, mentre Anna era intenta a posizionare pezzettini di ovatta tra le dita dei piedi per dipingersi le unghie.
«Un’altra? Ma non ne hai appena spenta una? E senti che puzza, Dio santo, non circola un filo d’aria in questa stanza».
«Che palle mà».
«Patroni mi ha invitata a vedere la partita, c’è suo figlio Massimo che gioca. Dice che se vincono salgono in serie D».
Anna non aveva idea di cosa significasse salire in serie D, ma Luciano Patroni era stato talmente insistente da convincerla che fosse una cosa di vitale importanza.
Luciano era un suo collega d’ufficio, un cinquantottenne compunto e preciso, uno da cui non ti aspetteresti mai un figlio con velleità da calciatore. Avvocato magari, magari civilista.
«Ma Patroni non è un po’ troppo vecchio per avere un figlio così giovane?» - era stato il commento di Letizia - «come mai quest’invito?»
«Che strazio Leti, non ricominciare. Guarda che il figlio di Luciano non è mica un ragazzino, ha trentuno anni. E spero di poter ancora aspirare a qualcosa di meglio di quella specie di Fantozzi che è Patroni…».
«Ma perché non ti fai portare da Davide?»
«Davide? Figurati se tuo fratello esce da casa la domenica pomeriggio. Comunque non preoccuparti, sono sopravvissuta quarantasei anni senza bisogno di vedere dei ragazzotti in boxer che rincorrono un pallone, me la caverò anche stavolta. Lascia stare».
Letizia e sua madre arrivarono allo stadio Bruni pochi istanti dopo il fischio d’inizio; tutti avevano già preso posto, e visto che Patroni non era a portata di sguardi, si sedettero sotto al sole, sulle gradinate, in mezzo a uomini in tuta da ginnastica e signore munite di ventaglio che starnazzavano su quanto i loro figli fossero belli, bravi e incompresi.
«Mà, ma non stavi più comoda in jeans?» - osservò Letizia, guardando Anna che cercava di tirarsi giù la gonna troppo stretta.
«Forse sì».
«Certo che tu ‘sta mania di apparire perfetta in qualunque situazione non te la toglierai mai, eh? Non so come fai a resistere con i capelli sciolti in questo caldo infernale, io sono già in un bagno di sudore» - e accese una sigaretta.
«Per quelle non hai mai troppo caldo, però».
«Qual è il figlio di Luciano?» - chiese la ragazza.
«Il sei»
«Bianchi o rossi?»
«Il sei dei bianchi è mio figlio Paolo» - rispose una signora che le sedeva accanto, fulminandola con lo sguardo a causa del fumo che le arrivava dritto in faccia.
«Rossi, quindi» - sentenziò Letizia, tenendo gli occhi puntati sul campo e sbuffando fuori il fumo con espressione di scherno - «allora questo Massimo ha un gran bel culo. Suo figlio Paolo, invece mi sembra un po’ flaccidino. Senza offesa, eh».
Ridacchiò, osservando i muscoli di Massimo che si muovevano al ritmo del tessuto sintetico.
«Lei è mia figlia» - disse Anna indicando Letizia, quando Luciano Patroni le raggiunse durante l’intervallo.
L’ometto compunto tese la mano alla ragazza.
«Non mi avevi detto che era così bella, però».
Letizia arrossì. Bella non ci si sentiva proprio. Sua madre era bella, lei al massimo poteva essere carina, un tipo.
«Voi dove siete seduti?» - chiese Anna a Luciano.
«Dall’altra parte, sotto alla tribuna. Venite, ci stringiamo, lì c’è ombra».
La finale terminò con il risultato di due a uno per la squadra ospite, e l’unica cosa che Letizia capì fu che il sogno di Massimo di salire in serie D era stato interrotto, come quello di suo padre in una lontana notte di maggio di tanti anni prima.
«Mà, io vado a prendere una coca. Vuoi qualcosa?» - chiese Letizia ad Anna prima di allontanarsi in direzione del chiosco, mentre i giocatori imboccavano la porta degli spogliatoi.
«Leti, vai pure a casa se vuoi, Luciano ha insistito tanto perché andassi da loro a prendere un caffè. Non ti dispiace, vero?».

Such a lonely day,
Should be banned.
It’s a day that I can’t stand.


Rivello è un paese della Fossa di Porto, vicino Ferrara. Un posto di merda, popolato da contadini imborghesiti e zanzare in crisi d’astinenza.
Dopo aver consultato le indicazioni Letizia s’incammina a passo spedito fuori dalla stazione, ma la testa è bassa, lo sguardo fisso sui sandali di legno che porta ai piedi, talmente attento da contarne le cuciture nella suola.
Nell’aria c’è profumo di pranzi domenicali, quelli col timballo al forno e le paste dolci. Quegli odori ritornano ogni volta a prendersi gioco di lei, a intrecciare un passato pieno di speranze con i desideri di un presente orfano d’illusioni.
E ora che non sente più il peso di un futuro gonfio di aspettative, Letizia può finalmente guardare in faccia il suo passato senza paura, anche se la faccia è quella di Massimo.
C’è una fioriera sulla piazza del capolinea degli autobus, e un passerotto sul bordo che becca briciole di pane o di chissà cosa; è una femmina, a giudicare dal colore della testa.
Letizia aveva imparato a distinguerli da bambina, da quando suo padre, passeggiando nei giardini comunali di Collevento, le spiegava che i maschi si riconoscono perché hanno la testa nera.
Il padre di Letizia se n’era andato quando lei aveva appena sette anni; l’ultima immagine nitida che ricordava di quell’uomo dai grandi baffi castani erano le lacrime rabbiose versate sopra un lontano Roma – Liverpool di tanti anni prima.
Se non fosse stato il giorno del suo compleanno, probabilmente Letizia non ricorderebbe nemmeno quella partita. Ma lei avrebbe voluto trascorrere quel pomeriggio in compagnia dei suoi amici, magari a casa, magari con una grande torta di cioccolato glassata di rosa, e lui non glielo aveva permesso.
«Stai scherzando? Stasera c’è la finale di Coppa dei Campioni» - aveva risposto suo padre quando Anna gli propose di organizzare una festicciola per la figlia - «non voglio ragazzini tra le palle».
«Ma andrebbero via prima della partita… e poi Letizia ci tiene così tanto…»
«Anna, ma mi ascolti quando parlo?».
Ricordava tutto, Letizia. Le note di you’ll never walk alone, la voce del telecronista che scandiva Tancredi, Nappi, Nela, Righetti, le bestemmie di suo padre e di Davide sugli errori di Conti prima e Graziani poi, e infine il rigore di Kennedy, che fece piombare un’intera città in un silenzio surreale.
E poi, solo quelle lacrime. Tante da riempirci il Tevere in secca.
E poi, solo quelle supposizioni, quelle accuse, quei dubbi, quell’idolo vigliacco.
E poi, tonnellate di carta e litri d’inchiostro.
Letizia era troppo piccola per capire che mentre lei giocava con il tanto desiderato cavallo di Barbie, il tempo si era cristallizzato in un istante che stringeva tra le dita pezzetti di cartone gialli e rossi buoni ormai solo per il fuoco.
Era troppo piccola per capire che quelle sarebbero state le ultime immagini di suo padre, quelle che avrebbe portato sempre con sé.
Il suo settimo compleanno era stato meno importante di undici ragazzotti in boxer che rincorrevano un pallone.
Poi finalmente lo vede. Massimo è sulla soglia di casa, le fa un cenno con la mano, come se fosse possibile che Letizia non lo avesse riconosciuto.
Indossa un paio di pantaloncini larghi sopra alle infradito di gomma. Le gambe abbronzate e i muscoli tonici attraversati dalle vene gonfie sono gli stessi di quella domenica pomeriggio di quattordici anni prima.
Si è fatto tatuare qualcosa sul polpaccio; ha anche un piercing sul sopracciglio sinistro.
Massimo splende come un sole a picco su un mare di domande, in quei suoi quarantacinque anni portati con un’invadenza quasi arrogante.
E’ bello come lo ricordava, forse di più. Le dodici primavere che li separano sorvolano leggere le loro teste senza fermarsi nemmeno per un attimo.

'Cause nothin' lasts forever
And we both know hearts can change


Anna tornò a casa tardi, Letizia si era addormentata sul divano con la tivù sintonizzata su un’emittente privata, che trasmetteva uno speciale sulla Juventus regina d’Europa.
Quella che nel 1984 era la Coppa dei Campioni, quella sera del ’96 si chiamava già Uefa Champions League, e la modernità di quelle tre parole strideva parecchio con l’immagine ingiallita che Letizia aveva impresso nella memoria.
Anna spense il televisore mentre Michel Platini lasciava sullo schermo un bel sorriso di plastica per la sua ex-squadra.
«Letizia, vai a letto».
«Ma che ore sono?»
«Mezzanotte e qualcosa».
«Ma dove sei stata fino a quest’ora, mà?»
«Siamo andati a mangiare una pizza, ci ha raggiunti anche Davide quando è uscito dalla piscina. Peccato non ci fossi anche tu, Massimo è davvero un bravo ragazzo, mi ha spiegato un sacco di cose. Dice che il suo mito è un certo Pluto, ma tu hai idea di chi sia?»
«Oddio mà, ma cosa vuoi che me ne freghi a me del calcio…»
Nei giorni che seguirono, a Letizia bastò incontrare un paio di volte Luciano e Massimo Patroni in casa sua per capire che dietro il loro improvviso interesse per la sua famiglia si nascondeva qualcosa.
Trascorsero alcune settimane, poi Letizia decise di affrontare Anna, una sera a cena, quando Davide era fuori con gli amici.
«Mà»
«Cosa c’è?»
«Che mi dici di Luciano?»
Anna sgranò gli occhi e si affrettò a bere un sorso d’acqua, prima che il rollè comprato bell’e pronto quel pomeriggio al Sidis le andasse completamente di traverso.
«Che significa?»
«Non sono così idiota, mamma. Potresti anche dirmi la verità, almeno quel poveraccio di Massimo non sarebbe costretto ad accompagnare il padre per giustificare le sue visite».
«Non è come pensi»
«E com’è allora?»
«Sai, è la prima volta che mi sento così da quando se n’è andato tuo padre».
«E sua moglie?»
«Non hai capito. Parlo di Massimo».
«Ma che dici mà? Ha l’età di Davide!»
«Io… non lo so, ti giuro che non lo so» - continuò Anna, torturandosi le mani come faceva sempre quando era in imbarazzo - «non ci capisco più niente, è successo tutto così in fretta… ».
Il volto di Letizia si divise esattamente a metà, da una parte incredulità, dall’altra una specie di rassegnazione.
«Io… non so che dire».
«So quanto sia difficile per te capirlo, Letizia, ma ogni volta che lo vedo mi sembra che il cuore stia sempre lì per scoppiare. Mi sento trent’anni in meno addosso. Sono felice».
«Forse ho solo bisogno di un po’ di tempo» - rispose la ragazza alzandosi da tavola. Se Anna avesse guardato meglio, si sarebbe accorta che gli occhi scuri di sua figlia erano appannati.
«Tutto il tempo che vuoi, amore. Massimo ti adora di già».

Such a lonely day
Shouldn’t exist.
It’s a day that ill never miss.


«Ciao Massimo» – lo abbraccia forte, come se non volesse più lasciarlo andare. Lei lo adora già, di nuovo.
Lui non riesce a ricambiare, immobile si lascia stringere senza reagire, fiutando l’adrenalina che corre lungo il corpo di chi è diventata una donna prima che una figlia.
Ci sarebbero tante cose da dire, adesso, ma le parole si fermano prima di prendere forma, nell’aria satura di perché.
Letizia posa lo zaino nell’ingresso, Massimo le fa strada fino alla cucina invitandola a sedersi davanti a una fetta di torta.
Sulle pareti Letizia vede tante fotografie; la maggior parte sono immagini di Massimo in tenuta da gioco, altre lo ritraggono in compagnia di una donna dai lunghi capelli biondi .
«Non vuoi toglierti il giacchetto? Fa caldo qui» - le chiede Massimo.
«No, sto bene così».
Letizia scuote la testa per scansare una ciocca di capelli davanti ai suoi occhi, colpa delle pale che vorticano appese al soffitto e che smuovono l’aria bollente di quel primissimo pomeriggio d’estate inoltrata.
«Assaggia» - le dice piano Massimo, con quella voce bassa e colpevole, di chi prova a essere padre ma non ci riesce.
Letizia sente il cuore battere in ogni vena del suo corpo, la tensione si accumula lungo i nervi del collo fino a farli pulsare involontariamente.
Infila il cucchiaino nella parte bianca della farcitura, sua madre avrebbe fatto lo stesso.
Il sapore del metallo è la prima cosa che sente, poi c’è solo il dolce che si scioglie sulla lingua e le sveglia una parte del cervello che credeva addormentata.
«So perché sei venuta» - dice lui nello stesso momento in cui lei si toglie il cucchiaino dalla bocca e chiede - «cos’è?»
«Prima tu!» - esclamano, ancora all’unisono. E Letizia sorride, mentre Massimo pensa a quanto sia assurdo che i loro pensieri viaggino ancora sulla stessa lunghezza d’onda, nonostante tutto.
Letizia affonda nuovamente il cucchiaino nella fetta di torta, Massimo la osserva con i gomiti poggiati sul tavolo.
«Crema di burro al limone.» - sentenzia lei, con voce ferma.
«Morbida come il burro, aspra come…»
«Come te.»
«In realtà avresti dovuto dire come il limone» - esclama Massimo visibilmente deluso - «era così che dicevamo sempre, non ricordi?»
«Le cose cambiano, Massimo. Anch’io sono cambiata. Tu invece sei sempre uguale. Questi dieci anni ti sono scivolati addosso. Giochi ancora?».
Ora Letizia è seduta, di fronte a lui. Una vena di sudore scende a imperlarle il torace, sotto il giacchetto di jeans, sotto la maglietta nera, dove lui non può vedere.
«Nove, solo nove. No, non gioco più da un pezzo. Sei molto più magra di come ti ricordavo».
Ma la voce, quella sua voce aspra come il limone e morbida come il burro era sempre la stessa, capace di mischiare le parole con la dolcezza di quelle che non diceva mai.


We've been through this such a long long time
Just tryin' to kill the pain.


«Come mai hai scelto proprio il numero sei?» - chiese Letizia a Massimo, una sera in cui si era fermato a cena da loro. Massimo parlava poco, ma lui e Anna stavano insieme ormai da qualche mese, e Letizia stava imparando a convivere con la sua presenza e con i suoi silenzi. Ogni tanto provava a scuoterlo un po’, lo provocava, lo scherniva.
«Perché sono un difensore centrale, come Aldair, sai chi è?»
«Ne ho sentito parlare. Ma non è più divertente giocare in attacco?»
«Forse sì, ma io sono sempre stato un tipo piuttosto riflessivo. In seconda media, quando ho iniziato a giocare, tutti i miei compagni litigavano per avere il dieci. Erano gli anni in cui si sentiva molto parlare di un certo Diego Armando Maradona. Io invece stavo bene lì dietro, ad aspettare gli avversari. Tanto prima o poi sarebbero arrivati, non aveva senso andargli incontro» - rise.
«Vado a prendere il dolce» - li interruppe Anna.
«Ma tu nella vita vuoi solo giocare a calcio, o pensi di fare altro, prima o poi?» - chiese ancora Letizia all’uomo di sua madre - «sbaglio o sei un po’ grandicello per sognare di diventare un calciatore miliardario?».
«Io faccio già altro, Letizia» - rise di nuovo, Massimo - «lavoro in una pasticceria. Se dovessi campare con il calcio, sarei morto di fame da un pezzo».
Anna era tornata con tre piattini carichi di una torta candida venata di giallo.
«Ti trasferirai qui?» - aggiunse Letizia rivolgendosi a Massimo.
Lui cercò l’approvazione di Anna, che non rispose nemmeno con lo sguardo.
«Io non avrei assolutamente nulla in contrario» - si affrettò a specificare Letizia - «e credo nemmeno Davide» - aggiunse con sarcasmo, guardando la madre di traverso - «per lui sei il fratello che non ha mai avuto».
«Assaggia» - si limitò a chiederle Massimo, mettendole il piattino davanti nello stesso momento in cui lei chiede - «cos’è?»
«Prima tu!» - esclamano ancora all’unisono.
Massimo non rispose, sorrise ancora. Letizia affondò il cucchiaino nella fetta di torta.
«Ha lo stesso sapore di quei biscotti burrosi nelle scatole di latta blu. Mamma è fissata con quei biscotti, saranno almeno dieci anni che li mangio per colazione. Ma qui c’è qualcosa di diverso, un retrogusto aspro».
«Morbida come il burro, aspra come il limone. È la mia specialità. Tua madre la adora».
«Davvero? A me invece fa schifo. La prossima volta portaci una bella profiterole».


And if you go
I wanna go with you.


«Davvero sai perché sono venuta?»
«Davide mi ha detto di vostra madre. Mi dispiace».
Le dita di Letizia lasciano il cucchiaino e vanno a sfiorare il mento di Massimo.
«Ti dispiace? E Davide, per caso, ti ha anche detto di come ho vissuto io, in questi dieci anni? Anzi, scusa, nove. Solo nove».
«Sapevo che non mi avresti mai perdonato. Ma non sai quante volte ho pensato a come sarebbero potute andare le cose se…»
Letizia si alza, il cucchiaino tintinna sul piatto, l’altra mano rimane immobile nella tasca del giacchetto jeans.
«Scusa, ma mi riesce difficile crederti. Una lettera, solo una squallida e schifosa lettera. Non ti sei mai degnato di farti vivo, mai una telefonata, Massimo, mai. Se non fosse stato per Davide che ti ha cercato per mari e per monti a quest’ora non sapresti nemmeno che mia madre è morta. Mi fai schifo».
«Tu sai bene perché me ne sono andato, non essere ingiusta».
«E così l’ingiusta sarei io?» - tuona Letizia - «ma tu hai una vaga idea di quello che stai dicendo?».
«Lo so. E mi dispiace. Non ti ho mai chiesto di perdonarmi, non ti ho mai cercata, se non fossi venuta tu da me non ci saremmo visti mai più! Che cazzo dovevo fare di più, ammazzarmi? Ora dimmi, cosa vuoi? Perché sei venuta qua? Per farmi sentire ancora una merda?»
Massimo si mette il viso tra le mani. I singulti gli scuotono il torace.
Letizia si alza di scatto, quelle lacrime non fanno che accrescere la sua frustrazione. Lacrime inutili, come quelle di suo padre di fronte a quell’ultimo rigore sbagliato.

But lovers always come, and lovers always go
An no one's really sure who's lettin' go today.


La sera tra il 29 e il 30 maggio del 1999 Letizia festeggiava i suoi ventidue anni in un pub. Si era fatta passare a prendere da uno dei suoi amici perché non voleva rischiare di rimettersi al volante dopo aver bevuto. Indossava un tubino di raso nero senza maniche, calze autoreggenti venti denari e scarpe decolleté tacco undici. Erano tutti regali di sua madre, che man mano che passavano gli anni si convinceva sempre di più che Letizia dovesse essere più femminile, più donna e più puttana.
Nei suoi cinquantaquattro chili per un metro e sessantacinque, truccata e pettinata, Letizia faceva una figura più che discreta. Un sette pieno, un’ottima laterale di fascia, come le aveva detto Massimo prima che uscisse da casa.
Gianluca, che era sì un vecchio amico, ma era grasso come un maiale d’inverno e brutto come una strada di campagna di notte durante un temporale, come da copione non le si scollò di dosso nemmeno per cinque minuti, facendole rimpiangere di averlo invitato.
Dopo la mezzanotte, il taglio della torta di cioccolato glassata di rosa e il brindisi di rito con brachetto d’acqui, mentre erano tutti intenti a chiacchierare in gruppetti di due o tre persone, dalla porta girevole del pub entrò Massimo.
«Che ci fai qui?» - gli chiese Letizia quando si avvicinò al tavolo.
«Sono venuto a portarti questo» - rispose porgendole un sacchettino di organza rosso.
«Ma tu sei scemo! Lui è Massimo» - aggiunse Letizia presentandolo ai suoi amici, senza specificare altro - «ma non avevi la cena con la squadra stasera?» - gli chiese, mentre apriva il regalo e tirava fuori un ciondolo d’argento a forma di stella.
«Sì, sono venuto direttamente dal ristorante».
Letizia mise il ciondolo al collo, e quell’argento lucido sul raso nero risaltava proprio come una stella accesa in un bosco di montagna.
«Grazie, ma non dovevi. Rimani se ti va, tanto tra poco andiamo via tutti, così mi accompagni e lasciamo libero Gianluca» - gli disse, implorandolo con lo sguardo di schiodarla da quella croce di grasso e brufoli che le sedeva accanto.
«D’accordo, avviso tua madre» - rispose sottovoce.
Massimo sembrò perfettamente a suo agio tra gli amici di Letizia, e per una buona ora e mezzo tenne banco raccontando le sue esperienze fuori e dentro i campi di calcio, compresa la delusione per il ginocchio malandato che gli aveva compromesso la carriera, facendo scivolar fuori le parole con bicchieri di martini bianco & coca cola.
«Massimo, penso sia il caso di andare» - gli disse Letizia a notte inoltrata - «sono le due, tra un po’ ci cacciano».
Salutati gli amici, Letizia e Massimo si avviarono verso l’Alfa 75 grigia che li aspettava in un parcheggio male illuminato. Letizia barcollava un po’, e tremava, anche sotto il maglione di cotone che Massimo le aveva poggiato sulle sue spalle.
«Sei stata bene stasera? Ti sei divertita?» - le chiese.
«Sì papino» - rispose sarcastica.
«Okay, sto zitto prima che te ne esci con qualcosa come io un padre ce l’ho già».
Letizia rimase in silenzio.
«Scusa, sono un idiota».
«Sono contenta che sei passato, davvero… mi hai pure salvata da quella piovra di Gianluca!» - rise, Letizia, e fu scossa da una serie di singhiozzi che non riuscì a tener chiusi nella bocca - «Posso farti una domanda?» - proseguì senza dargli tempo di rispondere - «perché stai con mia madre?»
«Perché ci sto bene».
«E ti basta?»
«Che significa?»
«Hai quindici anni meno di lei. Sei bello, non sei nemmeno stupido. Perché?»
«Tua madre mi piace, io piaccio a lei. La differenza d’età non la sentiamo nemmeno. Stiamo bene».
«Mamma ha sofferto parecchio quando papà se n’è andato. Lui adesso sta con una polacca, vive a Brescia. Te l’avrà detto. Ma non è stata colpa mia, mio padre non era l’uomo giusto per lei».
«Lo so che non è stata colpa tua, non c’è bisogno che me lo dici».
Una volta in macchina, Massimo esitò qualche minuto prima di girare la chiave nel cruscotto.
«Che cosa c’è?» - gli chiese Letizia.
«Mi sa che ho bevuto troppo anch’io».
«Non dire stronzate».
«Perché?».
«L’alcol non c’entra niente, lo sai tu come lo so io».
La mano di Letizia si poggiò su quella di Massimo mentre provava a mettere in moto. Lui la guardò con occhi carichi di voglie e paure.
«Smettila, Letizia, per favore».
«Smettila tu. Puoi continuare a recitare la parte del patrigno affettuoso, se vuoi. Oppure puoi prendermi e scoparmi su questo sedile, adesso».

And if you die
I wanna die with you.


«Smettila. Smettila di fare la vittima, di dire che lo sai… ma che cazzo sai tu? Tu non sai proprio niente! Dov’eri quando mia madre si chiudeva in camera la sera a singhiozzare come una bambina? Non c’eri tu la mattina a prendere il caffè con lei mentre sospirava verso il tuo posto vuoto a tavola. E non c’eri nemmeno quando ha iniziato a tossire sangue. Io sì, Massimo, io c’ero. E il rimorso di averla ridotta in quello stato ha spazzato via qualunque ricordo felice avessi di te».
«Dimmelo tu, allora» - la interrompe sollevando gli occhi gonfi di rimorsi - «cosa avrei dovuto fare? Rimanere lì e lasciare che scoprisse tutto?»
«Se solo tu potessi immaginare quante volte l’ho vista alzare lo sguardo e chiedersi perché… eppure nonostante tutto non ti ha mai dimenticato. Tre giorni fa mi ha chiesto di portarle una torta con la crema di burro al limone, - come quelle che faceva Massimo - ha detto – forse tornerà per salutarmi – ha detto. Non l’ho trovata in nessuna merdosa pasticceria, questa cazzo di torta che fai tu. Non sono riuscita a fare neanche questo per lei. E tu non sei mai tornato».
Letizia gira intorno al tavolo, è nervosa. Si accende un’altra sigaretta.
«Ho preferito che odiasse solo me, che mi considerasse uno stronzo, un figlio di puttana. Era il male minore, Cristo santo, perché non lo capisci? L’ho fatto anche per te. Tu credi davvero che sparire nel nulla, lasciarti andar via senza sapere più nulla di te fosse quello che volevo? Ho dovuto ricominciare da capo anch’io, non sei stata l’unica a soffrire».
«È troppo facile, così. Tu potevi andartene, ma io? A me non ci hai pensato, vero? Guardami, cazzo, guardami»– gli dice sollevandogli il mento – «non vedi cosa sono diventata? Il senso di colpa mi ha divorata, in tutto questo tempo. Capisci che mi sono sentita responsabile di tutto, in questi anni? Che non sono riuscita a rifarmi una vita, ad andarmene via? Capisci che mi sento responsabile di quel maledetto cancro? Lo capisci o no?».

If we could take the time to lay it on the line
I could rest my head just knowin' that you were mine.
All mine.


«Visto che quest’anno il primo gennaio viene di sabato, potremmo trascorrere il capodanno a Collevento, tutti e quattro insieme, e tornare qui il due. Tanto la casa è talmente grande che potreste portare anche i vostri amici, che ne dite?».
Anna si rivolse ai suoi due figli piena di speranza, in una sera di fine millennio, approfittando di un’influenza che li aveva costretti entrambi a casa, illudendosi di poter ancora ricreare una famiglia quasi perfetta. Le cose tra lei e Massimo non andavano bene già da un po’, l’entusiasmo dei primi tempi aveva lasciato il passo alle abitudini e alle preoccupazioni di tante coppie normali.
«Tutta vita eh?» - esclamò sarcastico Davide soffiandosi il naso.
Gli occhi di Letizia si piantarono per un istante in quelli di Massimo prima di rispondere. Lui era seduto sul divano, con il telecomando tra le mani; lei era ancora a tavola a spizzicare pezzetti di torrone.
«Lascia stare, mà» - rispose infine - «che quella casa casca a pezzi. E non c’è nemmeno il riscaldamento, moriremmo di freddo».
«Beh, il riscaldamento non è mai stato un problema. C’è il camino, e le stufe a legna. E poi la casa non è mica messa così male».
«Io non vengo» - replicò perentoria Letizia - «ho già preso il biglietto, vado al TransPorter».
«Ma non c’è la serata per i froci a capodanno lì?» - rise Davide, mentre armeggiava con la playstation per l’ennesima partita a Winning Eleven da giocare con Massimo.
«Ma stai zitto» - rispose sua sorella stizzita - «pensa ai tuoi giochini del cazzo, tu».
Non c’era nessun biglietto per il TransPorter, Letizia non sapeva nemmeno cosa avrebbero organizzato in quel locale, per capodanno.
Di quella sera di maggio, Massimo e Letizia avevano deciso di non dire nulla ad Anna. Ma non era stata una sbandata, la loro relazione clandestina da quella sera non si era mai interrotta.
Massimo aveva capito da un pezzo di non essere innamorato di Anna, e Letizia aveva capito da un pezzo che Massimo non avrebbe mai avuto le palle di lasciare sua madre per stare con lei.
Si accontentavano di farsi promesse che non avrebbero mantenuto, di parlare di sogni che non si sarebbero avverati, rubando momenti al tempo che era sempre troppo poco, magari incontrandosi di fretta nello stanzino dei detersivi, programmando fughe e week end romantici che non avrebbero mai fatto, dividendosi sguardi e sensi di colpa, mentre lui le metteva una mano davanti alla bocca per zittire le sue urla di piacere e lei distruggeva lentamente il suo futuro.
Ed era già passato un anno e mezzo.



Take your hand and walk away…

Anche Letizia piange, ora.
Scoppia in un lamento disperato che trabocca i suoi sensi di colpa, offrendogli un appiglio per sentirsi meno solo.
«Non è colpa tua Letizia» - le dice Massimo - «la nostra storia è stata un errore, lo sappiamo entrambi, ed entrambi abbiamo pagato abbastanza. Vivo in esilio da nove anni, in questo buco di merda, lontano da tutto ciò che conoscevo, che amavo. Ti assicuro che non sei l’unica che sta pagando i propri errori».
Un tenue raggio di sole filtra dalla tapparella quasi completamente abbassata, unico testimone di quell’ultimo incontro, ancora una volta clandestino.
Letizia si ferma, gli da le spalle. Si guarda riflessa nel vetro della finestra. Si morde le labbra storcendole in un’espressione carica di rancore e malinconia.
«Ero in ospedale con lei quando se n’è andata. Era serena, sembrava sorridere».
Letizia si volta, Massimo è ancora seduto davanti alla crema di burro al limone. Si piega sulle ginocchia e lo guarda dritto negli occhi. La sua voce diventa morbida e scura mentre una mano scivola sulla gamba nuda della sua ossessione.
«Non sono stata con nessun altro uomo, dopo di te. Ho sempre sperato che un giorno saresti tornato, che mi avresti cercata. Ne ero convinta».
«Ne hai mai parlato con qualcuno?» - rispose Massimo accarezzandole il viso.
«L’ho detto a mio padre. È venuto per i funerali. Non sembrava sorpreso, ha detto che da una come me c’era da aspettarselo».
«Che bastardo».
«E tu? L’hai mai detto a qualcuno?».


Everybody needs sometime,
on their own.


30 maggio 2001

Cara Anna,
se stai leggendo queste righe, è perché alla fine ho deciso di prendermi quel tempo che ti avevo chiesto un mese fa, per decidere cosa fare della mia vita. Quest’ultimo anno è stato difficile per tutti, prima Letizia che ha deciso di lasciare l’università e poi Davide che se n’è andato per seguire Marta, e nel mezzo, tutte quelle piccole preoccupazioni che una madre inevitabilmente riversa sulla sua famiglia.
Io sono stato capace solo di preoccuparmi del mio ginocchio malandato, e di una carriera da calciatore fallito che non sarebbe comunque arrivata da nessuna parte.
La tua proposta è arrivata come un fulmine a ciel sereno. Mi hai spiazzato, e ho sentito improvvisamente tutto il peso di un ruolo che non sono mai riuscito ad assumere. Perché non sono mai stato né un compagno perfetto, né un fratello maggiore, né tantomeno un padre. Non sono mai stato niente di quello che avrei voluto essere per voi, e credo che ora sia arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e prendere una decisione.
Mi sono chiesto che posto avessi, io, in tutto questo. Me lo sono chiesto spesso, in questi cinque anni, e non sono ancora riuscito a darmi una risposta.
Quello che so per certo è che in questo momento non me la sento di impegnarmi in un matrimonio, ho bisogno di riflettere, di pensare, di staccarmi da te e dalla tua famiglia, è l’unico modo che ho per capire se è veramente questo ciò che voglio.
Andrò qualche giorno da un amico, fuori città. Ti prego, spiegalo tu a Davide e Letizia.
Ci sentiamo presto,
Massimo.

Such a lonely day
And it’s mine.


«Sono stato per sei anni con una donna, si chiamava Anja» - disse Massimo indicando il corridoio dove erano appese le fotografie della bionda - «l’ho detto solo a lei».
«Come mai è finita?».
«Si è innamorata di un altro. Più giovane, più bello e con più soldi di me. Come vedi, tutto torna».
«L’amavi molto?».
«Non so se sono mai stato capace di amare veramente qualcuno, a parte me stesso».
«Davide si è sposato con Marta. Mi ha detto di darti questa» - disse Letizia tirando fuori dalla tasca posteriore dei jeans una fotografia di suo fratello nel giorno del matrimonio - «mamma non c’era. Si vergognava, diceva che il foulard in testa la faceva sentire ridicola».
«Povera Anna» - si limitò a rispondere Massimo accarezzando i capelli di Letizia, accucciata sotto di lui, come quando da bambina si accucciava davanti alla poltrona di suo padre davanti alla tivù.
«Si è sempre addossata tutta la colpa. Parlo della tua decisione di andartene, diceva che era colpa sua. Fino all’ultimo momento di lucidità che ha avuto, è stata convinta che chiederti di sposarla sia stato l’errore più grande della sua vita».
«Probabilmente me ne sarei andato comunque, non ce la facevo più, Letizia. La proposta di tua madre ha solo accelerato le cose».
«Io mi fidavo di te, Massimo, perché hai permesso che vivessi tutto questo? Chi sei veramente?».
«Sono quello che conosci, un vigliacco. Ho pensato spesso di tornare, di chiamare… ma non ce l’ho fatta. Avevo paura della tua reazione, di quella di tua madre, avevo paura che mi vomitaste in faccia tutto il vostro rancore. E ne avreste avuto tutte le ragioni».
«Sai, Massimo, avevo promesso a me stessa che non ti avrei più cercato, fin quando fosse rimasta in vita mia madre. Ma ora lei non c’è più, Massimo. Siamo liberi».
Massimo non risponde. Letizia si alza, gira intorno alla sua sedia e si mette dietro di lui, massaggiandogli le spalle; abbassa il capo per sentire il suo profumo, lasciando che il naso gli sfiori il collo; Massimo piega la testa e chiude gli occhi, abbandonato sotto il tocco delle sue dita leggere.
Le mani di Letizia scivolano dalle spalle verso il torace, accarezzano i capezzoli duri, poi si ritraggono di nuovo nelle tasche del giacchetto jeans.
Massimo è immerso nel ricordo dei loro attimi rubati, delle carezze sottratte al tempo, dei loro corpi sudati intrecciati nel buio di uno stanzino. Ora hanno una casa, un letto, le pale di un ventilatore; potranno fare l’amore senza paura. Sarà un dolce ritorno.
Letizia infila la canna della pistola nella parte bianca della farcitura. Lo porta alle labbra di Massimo ancora abbandonato al ricordo di una passione proibita.
«Assaggia».
Il sapore del metallo è la prima cosa che Massimo sente, poi c’è solo il freddo che si scioglie sulla lingua e gli spappola una parte del cervello che credeva addormentata.
Sua madre avrebbe fatto lo stesso.

It’s the day that I’m glad I survived.

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