11 ago 2010

Un buco nell'anima

Il vagito gelido di quel neonato febbraio s’insinuava sotto il mio cappotto, mentre aspettavo Davide nel parcheggio del ristorante dove c’incontravamo spesso tre anni prima.
Avevo indossato il meglio dei miei trentadue anni per l’occasione, accondiscendo anche all’ennesima richiesta: guanti neri di raso, lunghi fino ai gomiti. “Come una diva d’altri tempi”, mi aveva detto.
O come una spogliarellista.
Ingoiai anche quella bugia, come avevo fatto con tutte le precedenti, perché non c’era nulla di più afrodisiaco per lui del sentirsi onnipotente.
Una sigaretta, mi serve una sigaretta.
Frugando nella borsa per cercare l’accendino, tirai su per sbaglio la siringa che mi ero portata dietro assieme alla vitamina, nell’eventualità che non fossi tornata a casa per il giorno seguente; due vecchi che entravano nel ristorante mi bucarono con sguardi atterriti.
«Sono anemica.» - li rassicurai, spalancando un sorriso da mammina premurosa e mostrandogli la fiala di vitamina B12 nell’altra mano.
Fanculo.
Ero di nuovo lì ad aspettarlo, nonostante tutto, poggiata al cofano dell’auto ad aspirare boccate di veleno.
Eppure dicevi di amarmi.
Lo diceva Davide il Romantico a Sutri, in quell’albergo da centosettanta euro a notte con la stanza vista giardino e il caminetto acceso. Lo diceva anche Davide il Dominatore, nel suo salotto, davanti a una bottiglia di spumante da due soldi e le manette che mi aspettavano sul piumone steso sul pavimento. E lo diceva persino Davide il Perverso, sul tavolo in cucina, mentre mi spalancava le gambe dopo avermi reciso gli slip con un coltello.
La tua schiava.
Perché solamente questo ero per lui, un terreno su cui costruire e demolire continuamente desideri e perversioni, un palcoscenico su cui si muoveva un solo attore, consapevole che sarei sempre stata una spettatrice passiva: la paura di perderlo era più forte della mia dignità.
Ci pensò lui a mettere fine a quella squallida farsa, dopo un anno di menzogne e abbandoni, lasciandomi, ormai tre anni prima, per trasferirsi a vivere con una certa Marisa, a Como.
Bagascia da quattro soldi, con la faccia di plastica e il culo basso.
Ma il vuoto che Davide aveva dentro era troppo grande per poter essere riempito da una persona sola, e così era tornato da me. Ma non gli avrei permesso di crollare nuovamente nella mia vita con il suo seguito di macerie e rottami, non a lui, al bastardo traditore che si era rivelato.
Entrai nel ristorante, decisa a recitare la mia parte fino in fondo; ordinai una bottiglia di vino rosso e accesi una sigaretta. Lasciai che gli altri clienti mi spogliassero con gli occhi mentre soffiavo fuori il fumo mordendomi pensierosa le labbra.
Non sono una puttana, stronzi.
E poi… lo stomaco bloccato, il cuore impazzito, un brivido freddo, una vena di sudore: si avvicinava con il suo passo altero, lo sguardo di eterno vincitore puntato nei miei occhi.
Ti amo...
Indossava la lunga giacca di pelle del nostro primo appuntamento e un sorriso appena accennato. Aveva tagliato i capelli, la sua stempiatura, il suo eterno cruccio, s’era fatta più evidente.
…da morire.
«Ciao Elena, ti trovo bene.» - esordì baciandomi una guancia - «hai messo i guanti, sapevo che non mi avresti deluso. Hai già ordinato?»
Rabbrividii.
«Solo il vino, non un’eccellente annata, ma comunque decente.»
«Andrà benissimo. Sei tu quella esigente, in fatto di vini.»
Sapevo cosa stava facendo, stava prendendo le misure prima di calarsi nel ruolo che aveva scelto per quella sera.
L’uomo perfetto nel momento perfetto.
Sapeva come farmi sentire capita, ma io sapevo quanto fosse bravo a mentire. Le sue erano labbra sottili di bugiardo, da ascoltare, da mordere, da succhiare.
«Allora, come te la passi? Il lavoro? E l’anemia, come va?» - mi chiese annoiato, mentre richiamava l’attenzione della cameriera per ordinare.
La mia vita, le mie fiale, il mio lavoro d’infermiera, le gocce per far tornare i colori nel mio mondo… quante parole gli vomitai addosso, osservando la sua finta preoccupazione.
Tanto non te ne frega un cazzo.
Ero la preda che aspettava inerme di essere catturata; lui, il predatore, era tornato per afferrarmi con i suoi lunghi artigli per poi lasciarmi nuovamente precipitare nel baratro della sua indifferenza.
«Ma non sono più la stessa di tre anni fa, Davide; oggi la routine e la stabilità non mi spaventano più. Ho capito che in un rapporto non basta solo il sesso, c’è molto altro.»
Un minimo d’orgoglio ce l’ho ancora, cazzo.
Mi braccava, tenendomi gli occhi puntati addosso come un mirino. Tra un sorso di vino e un boccone di carne aveva deciso la tattica di caccia: intendeva mimetizzarsi con la preda per poi azzannarla al collo.
L’uomo perfetto nel momento perfetto, tienilo a mente.
«Sai, anch’io ho cercato di vivere la mia relazione con Marisa, di abituarmi alla vita di coppia, come hai fatto tu. Non c’è bisogno di fingere, io ti capisco, siamo spiriti liberi» - alzò il bicchiere invitandomi a un brindisi - «e si vede che non sei felice, Elena. Io, per esempio… ho il mio lavoro di rappresentante che mi fa stare spesso fuori casa, ma persino quella è diventata una routine che mi sta soffocando. Forse dovrei andare anch’io da uno psicologo, forse sono depresso, come te.»
No, tu sei solo stronzo.
Il cacciatore stava tentando la simbiosi con la preda.
«Sai, ho pensato spesso a te in questi ultimi mesi.»
Immagino quanto.
«È come se non ti avessi mai lasciata.»
Ma l’hai fatto.
«Mi sono accorto che con tutte le altre donne cerco quello che sapevi darmi solo tu.»
L’anima?
«E tu? Cosa provi quando fai l’amore con un altro uomo, Elena?»
Bastardo.
Scoppiai.
«Credi davvero di avermi capita? Non hai capito proprio niente invece!» - urlai - «Fosse stato per te, avrei potuto passarmi una lametta sulle vene, o appendermi a una corda, tu non meriti proprio un cazzo. Lasciami in pace.»
Mi guardi, eh?
Era la prima volta che gli parlavo in quel modo, era stupefatto.
La coppia di anziani che mi aveva incrociata all’entrata, ora seduta al tavolo accanto, si voltò. Gli lanciai un’occhiata glaciale e si ripiegarono sui loro piatti.
«Non urlare, Elena, per favore. Io ti amo, lo sai. E lo sentivo, quando facevamo l’amore, che tra noi c’era un legame speciale, e io su certe cose non sbaglio mai.»
Ti amo.
«No, Davide. Tu hai sempre recitato il ruolo che ti avrebbe permesso di tenermi al guinzaglio come una cagnetta in calore. Perché non te ne torni da quella baldracca che ti sei sposato? Cosa vuoi da me? Sii sincero, almeno per una volta in vita tua.»
I miei pugni stringevano aria satura di rabbia, ricordi e sogni mozzati. Davide serrò le mani sulle posate, le vene del collo gli si erano gonfiate; lo avevo visto in quelle condizioni solo mentre scopavamo. Portò il tovagliolo alla bocca, per pulirla dalle briciole di quelle parole che gli erano rimaste incastrate tra i denti.
«Allora, perché sei venuto qua stasera?» - lo incalzai.
Mi fissò, cercando una nuova strategia.
È inutile, vinco io stasera, amore.
«Insomma, Davide, vuoi dirmi che cazzo ci fai qui, o devo andarmene? Non puoi piombare nella mia vita dopo tre anni come se niente fosse.»
«No, aspetta. Io, io…la verità è che io…»
Balbetti?
«In realtà dovrei essere a Modena, da un cliente. Nessuno sa che sono a Roma, e tu devi mantenere il segreto. Ti prego, Elena, altrimenti sono rovinato.»
«Complimenti, ti sei creato un alibi perfetto.» - dissi allargando un sorriso che dev’essergli sembrato incomprensibile.
Cazzo.
Quelle parole mi salirono dallo stomaco uscendomi dalle labbra senza che avessi il tempo di filtrarle con il cervello. Guardai la mia borsa poggiata sulla sedia accanto. Era veramente quello, che volevo? Un altro brivido gelido percorse la mia schiena, tutta la tensione che avevo accumulato, improvvisamente iniziò a sciogliersi.
«Volevo vederti perché ho un disperato bisogno di te.» - proseguì - «ho bisogno di riprovare ancora una volta quelle sensazioni che solo tu mi davi. Stavo impazzendo al pensiero di non poterti più avere, capisci cosa intendo?»
«Vieni al punto, Davide, che cosa stai cercando di dirmi?»
Mise la sua mano sulla mia, accarezzando il raso nero.
«Facciamo l’amore, un’ultima volta.»
Cretina. Sei una cretina. Davvero pensavi che fosse tornato per rimanere?
«Cosa? Ti sei fatto seicento chilometri solo per scoparmi? Ma non ci sono le puttane, a Como?»
Questa volta feci voltare tutto il ristorante.
«Elena, ti prego.»
«Te la sei organizzata bene la serata, eh? Prima la cena e poi il dolce.» - dissi alzandomi - «Paga il conto, che il dessert va ad aspettarti in macchina.»
Sì. È davvero quello che voglio.
Lo vidi uscire con la sua solita andatura stanca ma orgogliosa, di chi pensa di aver vinto l’ennesima battaglia. Montò nella sua auto facendomi cenno di seguirlo; dal mio stereo Janis implorava al suo amante di prenderle un altro pezzetto di cuore.
Parcheggiammo le macchine in una stradina sterrata senza uscita, prima la mia e poi la sua, dietro la stazione della metropolitana.
A giudicare dalla mole di fazzoletti, bustine argentate e scatole di metadone che i miei fari illuminavano, doveva essere un posto frequentato solo da puttane e tossici. Deve aver pensato che fosse il luogo perfetto per una troia in crisi d’astinenza come me.
Montai nella sua auto, poggiando la borsa ai miei piedi; appena mi tolsi il cappotto iniziò a leccarmi il collo, dietro l’orecchio.
No.
Scese verso la spalla abbassando la bretellina del mio vestito; spostò le coppe del reggiseno lasciando scivolare fuori i miei seni.
Mi baciò i capezzoli, leccandoli, succhiandoli, stringendoli, tenendoli tra la lingua e il palato come un serpente con il suo topolino.
Ho detto di no.
Lo spinsi sul suo sedile, tirai la levetta e lo feci sdraiare.
Iniziai a sbottonargli lentamente la camicia e ad accarezzarlo sul petto, lasciando scorrere le unghie lungo il suo torace, sempre più giù, sino ad arrivare alla lampo dei suoi jeans. Sentivo il suo calore, il desiderio di sentirsi di nuovo il padrone dei miei sensi lo faceva ribollire.
Mi vuoi, eh?
Mi scansò di colpo e si abbassò i boxer; con una mano iniziò a toccarsi mentre la mano libera bloccava i miei polsi, impedendomi di avvicinarmi. Mi voltai infastidita, guardando fuori dal finestrino, mi lasciò libere le mani.
«Guardami» - mi disse prendendomi per i capelli - «Gira questa cazzo di testa e guardami.»
Aveva ripreso il timone, il mio capitano. Voleva che lo osservassi mentre si masturbava, finché spostò la mano dietro la mia testa, spingendola fino all’altezza del suo sesso.
«No, devi solo guardare, voglio che mi guardi mentre godo.»
Mi teneva talmente vicina a lui che il mio naso rischiò di essere colpito dalla sua mano, che correva impazzita lungo il suo sesso.
Basta.
Mi ribellai, voltandomi di scatto per sfilare la cinta di pelle dalla sua giacca, e gli legai le mani dietro al poggiatesta, stringendo il nodo più che potevo.
«Come la mettiamo, adesso?» - gli sussurrai mentre scivolavo nuovamente su di lui.
Verme.
Avrebbe proseguito fino all’orgasmo se non l’avessi fermato, e mi aveva messa lì pretendendo che ingoiassi tutto, proprio come ingoiavo tutte le sue menzogne.
Non gli avrei concesso un addio così facile. Un addio deve essere doloroso, e più è definitivo, più deve far male.
Iniziai a toccarlo, e vedere il suo sesso tra il raso nero dei miei guanti lo eccitò ancora di più, trasfigurando i suoi lineamenti in un’espressione cinica e crudele. Presi coraggio e lasciai scorrere la mia lingua su tutta la lunghezza della sua asta, lucida e fiera: era il suo scettro, che risplendeva nel buio squallido di quella notte da puttane.
«Sei proprio brava. Non ti fermare.»
Lo prendevo tra le labbra accompagnando il mio su e giù con piccoli morsi, facendolo salire in paradiso, per poi fermarmi a guardarlo in quella posizione, così innaturale per un comandante come lui, e lo riprendevo in bocca, ingoiandolo fino alla base, facendolo sparire nell’oscurità di tutte le cose che non gli ho mai detto.
Come ci si sente a essere schiavi, amore?
Continuai a torturarlo per altri lunghissimi minuti, leccandolo, baciandolo, mordendolo, finché impietosita dal suo sguardo stremato, e consapevole che non avrebbe resistito a lungo, mi decisi a prendere un preservativo dal cruscotto e glielo infilai. Non dovevo rovinare tutto, non potevo attendere oltre.
Gli montai sopra, mi spostai gli slip e con un movimento rapido lo lasciai scivolare dentro di me, mentre le vene del suo collo gli si gonfiavano già.
L’onda bollente che si sprigionò al contatto dei nostri sessi mi annebbiò la mente di ricordi ed emozioni per un istante. Ma la sua immensa presunzione mi venne incontro ancora una volta, e la mia attenzione tornò di colpo sull’obiettivo quando mi chiese di sdraiarmi sul sedile accanto e cambiare posizione.
«No.» - replicai seccamente - «voglio sentirti sotto di me.»
Non volevo che raggiungesse la vetta. Ero io a guidare, a dettare il ritmo.
«Cazzo Elena» - mormorò - «la lontananza ti ha fatto proprio bene. Sei più brava di quando ti ho lasciata.»
Non sai quanto, amore.
Lo cavalcavo, con il seno scoperto e la mente nascosta.
«Okay… però… più piano Elena, ti prego, voglio sentire il tuo calore.»
Non lo accontentai, anzi, aumentai il ritmo. Era la mia liturgia di addio, non la sua. Non poteva dettare regole, ero io la padrona, quella notte.
Le vene sul suo collo erano allo spasimo; sentivo che si tratteneva, mi implorava di rallentare, non voleva arrivare in fondo a quello squallido film; chissà, magari aveva intuito che sarebbe stato l’ultimo.
Muovevo il bacino, salendo e scendendo sopra di lui, con lussuria e crudeltà. Avevo scalato la mia montagna, e ora lo guardavo mentre ansimava in basso cercando di raggiungermi senza superarmi mai.
«Sei un bastardo, ma hai ragione, io ti amo troppo.»
Liberai le sue mani ancora costrette dietro al poggiatesta, e le allungò immediatamente per afferrare con forza i miei seni, aggrappandosi come uno che sta per precipitare in un baratro; proprio come io mi ero aggrappata a lui, per poi precipitare nel vuoto dei suoi abbandoni.
Quella sarebbe stata l’ultima volta.
L’ultima volta le sue vene, l’ultima volta il suo sesso che annullava la mia esistenza, l’ultima volta il suo corpo che solcava le mie ferite.
Ed era stato proprio lui a indicarmi la strada, com’era sempre stato tra noi.
Prima che il piacere condensato tra le mie gambe esplodesse, infilai una mano nella borsetta. Davide si accorse che stavo per venire anch’io e si lasciò andare.
«Dio, Elena, solo con te può essere così bello.»
Fu quella la sua ultima frase.
Mi piace pensare che sia stata l’unica cosa sincera che mi abbia mai detto.
Gli conficcai la siringa nella vena più gonfia del suo collo; era talmente preso dal suo orgasmo che nemmeno si accorse della puntura.
Spinsi il pistone e iniettai l’aria velocemente.
Per la prima volta nella vita, la mia laurea in infermieristica mi era servita a qualcosa in più che prendere calci in culo dai miei superiori e anticipare di qualche giorno le visite con l’ematologo.
Nella luce della luna Davide spalancò gli occhi; lo vidi diventare cianotico, indossare lo stesso colore che per tanti anni avevo indossato io, e contrarsi in uno spasmo di orgasmo e morte.
E finalmente venni anch’io,.
Scivolai di lato, lasciandolo uscire per sempre da me, e trascinai il suo corpo nel bagagliaio dell’auto.
Mi misi al volante e imboccai l’autostrada. Se avessi incontrato un posto di blocco, probabilmente avrei proseguito andandomi a schiantare da qualche parte, ma il mio cammino fu liscio e veloce.
Arrivai a Modena che non era ancora l’alba, l’oscurità mi era ancora favorevole.
Mi lasciai alle spalle la zona industriale, un assembramento di capannoni separati da rigagnoli ammuffiti; fu proprio lì che abbandonai la sua auto, dentro un canale, con il suo corpo all’interno, premurandomi di rimetterlo al volante.
Un malore, un colpo di sonno, un suicidio… chissà.
Se avessero fatto l’autopsia sul suo corpo e fossero risaliti al buco, difficilmente avrebbero potuto collegarlo a me; in fondo avevo soltanto fatto quello che voleva lui: non dovevo dire a nessuno che quella sera lui era a Roma.
Non ti preoccupare, Davide, sarà il nostro piccolo segreto. Non potrei mai tradirti, io ti amo troppo.

1 hanno detto:

Anonimo ha detto...

Amore eros e morte. Kali, Kali, Mahakali. Sempre una componente del femminile. Aragona, capisco perchè mi sei simpatica.

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