12 ago 2010

Gocce di memoria

Mi piaceva incontrarmi al parco con Giordano in quelle belle giornate d’inizio primavera; ci sedevamo sempre sul prato, a gambe incrociate, preferendo l’erba umida al gelido marmo delle panchine.
«Credevo non saresti venuto oggi, il venerdì non vieni mai.» - gli dissi mentre cercavo un fazzoletto per soffiarmi il naso.

«Hai ragione, ma domani non posso venire. Nel pomeriggio parto, e ho preferito passare a salutarti oggi. Ma se ti dispiace posso sempre andare via, aspettavi qualcuno?»
«No, nessuno. Sono contenta che tu sia qui.»
Poggiai la testa al suo braccio, coperto per metà dalla manica della camicia arrototolata fino al gomito.
Le lancette scolorite del campanile segnavano le undici e trentatrè, i nostri obblighi quotidiani avrebbero aspettato ancora mezz’ora prima di inghiottirci nuovamente.
Stare con lui era normale, per me, ero abituata a condividere la mia vita con Giordano. I rumori del venerdì mattina di paese mi davano l’illusione che il tempo non fosse mai passato: le voci del mercato in lontananza, le campane della chiesa che rintoccavano ogni quarto d’ora, il chiacchiericcio delle anziane signore che passeggiavano per le viuzze, cariche di sacchetti della spesa. Tutto era esattamente uguale ai nostri giorni trascorsi assieme a Massa Morella.
Il nostro matrimonio era finito ormai da un po’, anche se continuavamo a vederci; mi telefonava tutti i giorni, veniva a trovarmi almeno un paio di volte a settimana riempiendomi di fiori, cioccolatini e peluches.
Non si rassegnava all’idea di avermi persa, o forse dovrei dire di non avermi mai trovata veramente; il fantasma di Yari ha sempre aleggiato sulla nostra relazione, anche se Giordano non se n’è mai reso conto.
Osservai un passerotto che beccava qualche briciola nella fioriera al centro del giardino, era una femmina. Ho imparato a distinguerli sin da bambina, da quando papà, passeggiando nei giardini comunali di Collevento, mi spiegava che i maschi si riconoscono perché hanno la testa nera.
I giardini comunali erano il fiore all’occhiello di Collevento; un piccolo parco, più piccolo di quello in cui m’incontravo con Giordano, ma molto più bello. C’erano le altalene, lo scivolo, il girello e il monumento ai caduti della prima guerra mondiale. C’erano bambini di tutte le età, ragazzi e giovani adulti. E al centro del giardino troneggiava una grande fontana piena di pesci, di tutti i colori e di tutte le dimensioni, che catalizzava l’attenzione di turisti e forestieri.
Passavo pomeriggi interi delle mie estati adolescenziali sulle panchine di quei giardini, aspettando di veder entrare Yari dall’ingresso principale. Non era tipo da frequentare posti come quelli, perciò sapevo che se veniva lì, lo faceva solo per vedere me.
Ricordo le mie orecchie tese, pronte a carpire il rumore della sua vespa sgangherata, i miei occhi allungati verso il cancello d’entrata, e le tremende delusioni che mi bruciavano dentro quando, al tramonto, tornavo mestamente verso casa senza che si fosse presentato.
Avevo undici anni quando l’ho visto per la prima volta, e da allora non mi sono più liberata di lui.
E a Collevento ho conosciuto anche Giordano, e dodici anni dopo lui era ancora con me.
E dire che ce l’avevo messa proprio tutta per fargli del male e allontanarlo per sempre.
Era un gran testone, il mio Giordano.
«Angela…»
Il testone mi scosse dal silenzio dei ricordi toccandomi un braccio.
Lo guardai sorridendo, poi scansai dolcemente la sua mano. Sapevo cosa voleva, erano mesi che veniva a cercare delle risposte, e io ero finalmente pronta a dargliele.
«Avevi detto che eri pronta a parlarne, quindi io…ma non voglio insistere se non te la senti.»
«Hai ragione, ho detto che lo avrei fatto, e lo farò. Da dove vuoi che cominci?»
«Mi piacerebbe sapere come hai conosciuto Yari, quanto tempo siete stati insieme, com’è stata la vostra storia…»

«Avevo tredici anni ancora da compiere. Una mattina, mentre ero seduta sugli scalini di casa mia con mio padre che leggeva il giornale, vidi passare due ragazzini, uno moro e tarchiato, l’altro alto e snello, con i capelli dorati e un’espressione da bulletto. Fu una vera e propria folgorazione, da quel momento non riuscii più a togliermelo dalla testa.
Chiesi informazioni ai miei amici, mi dissero che si chiamava Yari e che era un tipo che frequentava il giro degli adulti, uno che le ragazzine come me neanche le guardava. A quei tempi i tre anni che ci separavano sembravano una montagna insormontabile.
Poi, al termine di quell’estate passata a sospirare per lui, finalmente una sera riuscii a parlarci. Eravamo in piazza, a Collevento, io e le mie due amiche del cuore, Romina e Alessandra che come al solito mi prendevano in giro perché ero innamorata perdutamente di un ragazzo al quale non riuscivo a rivolgere nemmeno la parola.
La vecchia vespa blu di Yari, arrugginita e piena di ammaccature, era parcheggiata come sempre all’angolo con il vicolo dove lui abitava, a ricordarmi che il mio amore era ancora troppo lontano dai miei tredici anni di ciccia e ingenuità.
Alessandra faceva su e giù dalla panchina come un’ossessa, chiedendomi continuamente cosa ci trovassi di tanto bello in quel bulletto, secco come un chiodo e antipatico da morire.
“Che ci posso fare Ale, io lo amo da morire...”
Quante volte ho ripetuto questa frase negli anni a seguire. Tante, troppe volte.
Dal fondo del vicolo si affacciò una figura longilinea che saliva le scale con passo deciso e sguardo altero. Era lui, teneva qualcosa tra le braccia, un batuffolo di pelo bianco arricciato.
Avanzava verso di noi, con un cucciolo di pastore maremmano. Mio Dio, era il mio momento, ma cosa gli avrei dovuto dire?
“Che carino! Come si chiama?” – fu la prima cosa che mi passò per la mente.
“Si chiama Lucky” – mi rispose Yari continuando ad accarezzare la testolina pelosa.
“Beato lui!” – dissi ad alta voce, sognando di trovarmi al posto di quel cucciolo e considerando immediatamente l’ipotesi di sotterrarmi per la vergogna, per uscire solo dopo una ventina d’anni.
“Lo porto in campagna, per le pecore. A dicembre prendo il patentino e mi compro la moto, c’è già uno di Montestorto che me la vende, poi vi porto tutte e tre a trovare Lucky.”
Se ne andò con il suo passo fiero, lanciando un’occhiata complice a Romina, io non capii.
Quella notte non riuscii a dormire, e verso le tre del mattino sentii sgasare qualcuno sotto la mia finestra per qualche secondo, così mi affacciai immediatamente sperando che fosse Yari che mi chiamava, ma vidi soltanto la vespa blu che spariva in fondo alla strada umida, con due persone a bordo.
Da quella sera dovettero trascorrere molti anni prima di riuscire a mettere fine a quella storia.
Sette, per l'esattezza.
Sette anni in cui Yari è stata la mia scintilla vitale, sette anni di passione travolgente, fughe nella notte e telefonate interminabili, anni di amore viscerale e della disperazione più nera.
Lo amavo profondamente, di un amore limpido e totalizzante, quelli che riesci a provare solo quando sei adolescente.
Se tu, Giordi, non fossi arrivato, probabilmente non l’avrei mai lasciato, solo tu sei stato in grado di farmi allontanare da lui. Sei stato tu a darmi la spinta per chiudere definitivamente, per uscire da quei sette anni di abbandoni da puttana e ritorni da fotoromanzo, di accuse di ubriachezza molesta, spaccio di droga e violenza sessuale. Su Romina, ma anche su di me, ma io non ho ancora capito se sia vero o no.
Ricordi come ci siamo conosciuti? Quando sei arrivato a Collevento, diretto al lago per raggiungere i tuoi amici in campeggio, sembravi un bimbo che aveva perso i genitori al luna park. Ti eri fermato al bar a chiedere indicazioni.
Era il giorno di Pasqua, e anch’io avrei dovuto trascorrere il pranzo al lago, al ristorante di Silvano, con i miei amici. Ci sarebbe dovuto essere anche Yari.
Solo pochi mesi prima, a febbraio, avevo interrotto per l’ennesima volta la mia relazione con lui; aveva un’altra, e stavolta l’altra era più ufficiale di tutte le precedenti. Era una donna, quella, mica una ragazzina.
Ti sussurrai “ti accompagno io se vuoi, devo andare lì anche io.”
Speravo che una volta lì, Yari ci vedesse, che si ingelosisse, che venisse a trascinarmi via per un braccio com’era sempre stato fino a quel momento.
Ma non fu così, Yari mi guardò con insistenza per tutto il tempo, ma non mi disse nulla.
Così quella sera, dopo una giornata trascorsa con te, mentre i tuoi amici tornavano a Massa Morella, noi tornammo a Collevento insieme.
Avevamo passeggiato mano nella mano lungo le viuzze strette per diversi minuti, annusando l’odore della legna bruciata nei caminetti, facendo attenzione a non scivolare sui ciottoli bagnati dall’umidità, ridendo come due matti per il troppo vino.
Passando davanti al bar centrale, vidi Yari seduto ai tavolini fuori che beveva un Campari; il proprietario, che conosceva bene la nostra lunghissima storia, m’indicò con le dita che era già il quarto quella sera, sperando che io potessi fare qualcosa per farlo smettere di bere.
Yari mi lanciò uno sguardo carico di mille cose non dette, ma io mi limitai a sorridergli, e lui ricambiò.
Eravamo entrambi convinti che, alla fine, saremmo tornati insieme, non poteva essere altrimenti.
Tu e io facemmo l’amore per due ore, ridando voce alle vecchie molle del mio letto, poi ti accompagnai alla macchina che avevamo parcheggiato nello spiazzo sotto il paese; mentre camminavamo lungo una delle tante vie strette e buie, incrociammo Yari; lui non mi disse nulla, mi sfiorò la mano senza che tu lo vedessi.
Non mi voltai, non seppi mai se si era fermato ad aspettarmi oppure no. So solo che quella fu l’ultima volta che sentii la sua pelle addosso a me.
Un anno e mezzo dopo, tu e io ci sposavamo nella chiesa di San Giovanni a Massa Morella. Stavo sposando l’uomo perfetto, quello che tutte le amiche t’invidiano, quello che non beve, non fuma, non gioca d’azzardo. L’uomo che lavora, che ricorda gli anniversari e ti da il bacio della buonanotte prima di girarsi sul fianco più comodo, l’uomo che ti apre ancora la portiera dell’automobile.
L’esatto opposto di Yari.
Ma io continuavo ad aver bisogno di passioni, di scossoni, di emozioni. Tutte cose che tu non mi davi. Dicevi che certe cose accadevano solo al cinema, nei film come Transamerica, ti ricordi quando siamo andati a vederlo?
Io mi ero commossa fino alle lacrime, mentre tu sbuffavi annoiato, sorseggiando la bibita che ti avevo portato nell’intervallo.
“La prossima volta che vorrai convincermi a venire al cinema, ricordami questo film” - mi avevi detto a bassa voce.
E mentre tornavamo verso casa, ti sei ricordato di aver lasciato il pc portatile da Paolo, e andasti a riprendertelo, mollandomi davanti al portone; in quel periodo sembrava che non potessi vivere lontano dal tuo computer.
Eri tornato tardi quella notte, io avevo passato la serata in compagnia di Bree e Toby che ormai gironzolavano liberi dentro casa nostra, mi avevano accompagnata persino nel letto. Iniziavano a diventare un po’ invadenti.
T’infilasti sotto le coperte sussurrandomi che Paolo ti aveva chiesto di fermarti a mangiare qualcosa con lui, e non avevi potuto rifiutare, un uomo non può tirarsi indietro di fronte al migliore amico che soffre per una stronza che l’ha tradito. Te lo ricordi, no?
Iniziai a sentirmi sola, sola con i miei fantasmi, sola con la mia voglia di non essere sola.


Così, a pochi mesi dal nostro matrimonio, iniziai a frequentare Lorenzo. Vederlo per me era un vero toccasana, lui riusciva a darmi quelle cose che tu non eri in grado di darmi, era una compensazione indispensabile.
Sapeva sempre cosa dire, era molto premuroso, non si arrabbiava mai.
Le emozioni che vivevo accanto a lui mi arrivavano dritte allo stomaco senza che il cuore facesse in tempo a filtrarle.
Lorenzo aveva dato una soluzione a tutti i miei problemi.
E con il tempo, i sensi di colpa che mi avevano dilaniata all'inizio della nostra frequentazione non mi preoccupavano quasi più, pian piano tutto stava rimettendosi al proprio posto.
Tu non sapevi nulla di lui, e io feci di tutto per tenertene all’oscuro. Temevo che se te ne avessi parlato, avrei perso sia te che lui.
Una sera arrivai a casa all’ora di cena, tu eri seduto sul divano in soggiorno a spizzicare pezzetti di pane raffermo mentre guardavi il telegiornale; mi affacciai in cucina sperando di trovare la cena già pronta, ma, come tuo solito, non avevi preparato niente.
Non avevo voglia di mettermi ai fornelli, così ti portai un bicchiere d’acqua e uscii nuovamente, direzione friggitoria Il gallo d’oro.
Aveva iniziato a piovere, il vento gelido mi sferzava il viso rigato dalle lacrime, ci stavo ricascando.
Una voglia bastarda di chiamare Lorenzo mi attraversò da capo a piedi, ma probabilmente a quell’ora lui era già arrivato a casa dalla moglie, non era il caso.
Tornata a casa scartai svogliatamente il pollo con le patate al forno dalla stagnola e ti chiamai a tavola, ma mi dicesti che non avevi voglia di mangiare, chiedendomi se in frigo fosse rimasta un po’ di verdura lessa del giorno precedente.
Mi girai piuttosto scocciata, chiedendoti perché non me l’avessi detto prima che non avevi fame, e mi rispondesti che non ti sentivi bene, che la tua stitichezza negli ultimi giorni era diventata insopportabile.
Mi ricordai delle parole di Lorenzo, e capii improvvisamente che tutto stava andando esattamente come doveva andare.
Mi offrii di cercarti i confetti lassativi, ma tu facesti segno di no con la testa mentre sparivi dietro la porta smerigliata del bagno. Ti vidi uscire dopo pochi minuti e attraversare il corridoio per infilarti in camera.
Ormai potevo immaginare tutti i tuoi gesti solo dai rumori che sentivo provenire dalla nostra stanza.
“Si è tolto le scarpe senza slacciarle, giù la lampo dei pantaloni ed eccoli puntuali, gli spiccioli che cadono dalle tasche. Certo, se mettesse i pantaloni nell’armadio anziché buttarli sulla spalliera del letto gli spiccioli non cadrebbero.
Via il maglione, avrà i peli sul petto dritti ora. Nessun rumore, si sta sbottonando la camicia. Ci siamo, tre, due, uno…”
Mi chiamasti a gran voce, e senza lasciarti il tempo di fare la tua domanda, ti risposi di prendere un pigiama pulito dal cassetto, perché l’altro lo avevo messo in lavatrice.
Puzzava. E puzzavi anche tu, di morto.
Prima di venire a dormire, finii di disfare la valigia che come al solito avevi lasciato spalancata in mezzo al soggiorno, misi tutto in lavatrice e avviai il programma per panni molto sporchi.
Per essere sicura che il bucato venisse pulito misi anche un po’ di candeggina, non sopportavo di sentire l’odore dei tuoi vestiti.
Tu dormivi già, o perlomeno, era quello che volevi farmi credere. Mi sentii sollevata, e dopo aver letto il terzo capitolo di Il tailleur grigio di Camilleri, mi addormentai.»

«Te l’ho regalato io, quel libro?» - mi interruppe Giordano.
«No, me l’ha regalato Lorenzo la seconda volta che ci siamo visti. Gli avevo detto che adoravo i gialli di Camilleri.»
«Comunque quella notte non ho dormito granché, ero in ansia per il viaggio del giorno seguente. Sai, vista la situazione…»

«Anch’io ero in ansia. Il giorno successivo, dopo il lavoro, ero di nuovo in preda alle palpitazioni.
Mi sudavano le mani, tremavo come una foglia, tanto che non riuscivo a piegare i vestiti per metterli in valigia. Corsi in bagno a vomitare, mancavano poche ore alla partenza, sarei tornata a Collevento dopo tutti quegli anni.
“Come ai vecchi tempi, tu e io da soli” – mi avevi detto – “vedrai, sarà un week end che non dimenticherai.”
Era una promessa o una minaccia?
Andare proprio lì, dove tutto era iniziato, dove il mio amore con Yari era nato, cresciuto e morto… ma perché?»

«Angela, io non potevo sapere di Yari… Credevo che tornare a Collevento, dove ci eravamo conosciuti, avrebbe fatto bene ad entrambi.»
Non risposi, proseguendo irritata nel mio racconto.

«Andai da Lorenzo.
Gli dissi che Yari ogni tanto mi mancava ancora, mentre lui mi porgeva un fazzoletto per asciugare le lacrime.
Mi rispose citando Voltaire, un vecchio amore è come un granello di sabbia in un occhio, che ci tormenta sempre.
Gli dissi che non volevo venire a Collevento con te, che avevo paura.
Lui provò a tranquillizzarmi dicendo che in fondo stavamo solo andando in vacanza, che era passato tanto tempo, che sarebbe andato tutto bene, che non dovevo lasciarmi vincere dai fantasmi del mio passato.
E poi, come sempre, provò a convincermi a confessarti tutto di lui, dei nostri incontri, della sua esistenza.
Naturalmente non l’avrei fatto, perché avevo paura di perdere tutto. E per la prima volta da quando lo conoscevo, Lorenzo si arrabbiò molto.
Si alzò dalla sedia e si mise in piedi alle mie spalle, urlandomi quanto fossi forte, sostenendo che io non avevo bisogno di te, che la nostra storia non sarebbe proseguita a lungo se avessi continuato a mentirti, che dovevo lasciarti libero di decidere se stare con me, o no.
Io guardavo la mia immagine riflessa nel suo grande specchio senza capire nulla.
Sono certa che Lorenzo avrebbe voluto mangiarsi la lingua, non avrebbe dovuto dire certe cose. Ebbi l’impressione che volesse abbracciarmi, per non lasciarmi sola fin quando quelle stupide paure non si fossero eclissate, ma rimase immobile.
Secondo lui era arrivato il momento di affrontare la situazione, perché non era giusto che vivessi una vita indegna di tale nome da ormai undici anni. A quel punto fui io ad arrabbiarmi, e molto, anche.
Ero convinta di averti dato tutto quello che potevo, Giordano, ed ero convinta che tu, con il tuo atteggiamento scostante e ingrato, mi stessi vomitando tutto addosso. Volevo fartela pagare, capisci?
Tu non volevi più fare l’amore con me, Giordano. Ogni sera, quando mi mettevo a letto, trovavi una scusa diversa per non affrontare l’argomento.
Per un attimo arrivai a pensare che volevi portarmi a Collevento per uccidermi, per essere libero di vivere la tua vita, ma Lorenzo mi smentì fermamente, rispedendomi a casa con un’altra citazione, come aveva fatto all’inizio della conversazione.
“Porto addosso le ferite di tutte le battaglie che ho evitato”.
Se non fossi venuta a Collevento con te, avrei avuto una ferita in più da curare.
Mi tranquillizzai.
Feci come mi disse lui. Tornai a casa, finii di preparare la valigia, presi una pastiglia di erbe per dormire e mi misi a letto, non ti sentii nemmeno tornare quella sera.»

«Ricordo bene quella mattina, quando siamo partiti. Stavo malissimo.»
Pronunciando queste parole, Giordano mi guardò con l’espressione di chi si aspetta delle scuse, che io ovviamente non gli concessi.

«Ricordo bene anch’io. C’eravamo fermati al bar sotto casa a fare colazione, ti ho fatto sedere fuori, ti ho portato caffelatte e cornetto. E ho dovuto lottare non poco contro l’insistenza del barista che si ostinava a volerci servire al tavolo; ho dovuto dirgli che stavamo partendo per un fine settimana romantico e che volevo essere la tua servizievole geisha, in tutto e per tutto.
Terminata la colazione, tu entrasti per pagare, ti chiesi di prendere le mie solite Camel Blu, e montati in macchina ne accesi una.
Nonostante fino a quel momento mi fossi sforzata per non pensare a Yari, dovetti cedere. Era stato lui ad attaccarmi quel brutto vizio, ero molto piccola quando mi sono innamorata di lui.
In quel sabato mattina mentre mi portavi a incontrare il mio passato, i miei pensieri furono improvvisamente interrotti dopo circa un’ora di viaggio, quando iniziasti ad accusare forti malesseri; capogiri, nausea e brividi di freddo, accompagnati da una sudorazione imbarazzante.
Ricordi? Pensammo subito a un problema di digestione, la colazione, sicuramente il latte. Tanto più che io, che avevo preso solo un caffé, stavo benissimo.
Sapevo bene che il problema non era il latte, ma non ti dissi nulla, non potevo rovinare tutto.
Ci fermammo in un autogrill e dopo qualche minuto, vedendo che stavi meglio, decidemmo di ripartire.
Mi chiedesti di prenderti appuntamento con il dottor Pieri, perché i tuoi disturbi iniziavano a preoccuparti.
Provai a convincerti che non era nulla, che fosse solo un problema di stress, ormai erano più le notti che dormivi fuori casa che quelle che trascorrevi con me. Mi chiedesti cosa significasse quella mia affermazione, ma non volli tradirmi.
Eravamo quasi arrivati, il lungolago era uno spettacolo quel sabato mattina; il vento spogliava con dolcezza i pioppi, l’aria era pulita da una leggera tramontana e tutto sembrava essersi fermato a molti anni prima, quando mi affacciavo dalla rupe e guardavo sfilare le macchine lungo la strada, aspettando di veder passare anche quella di Yari che probabilmente portava qualche ragazza a fare l’amore sulle rive del lago.
Che gran bastardo che era, il mio Yari.
Non hai idea di quante notti della mia adolescenza ho passato a piangere per lui, per la sua crudeltà, la sua indifferenza. Era capace di farmi sentire meno di niente, per poi portarmi al settimo cielo solo con un gesto. L’ho insultato, picchiato, umiliato, eppure lui tornava sempre da me.
Guardai verso l’alto attraverso il parabrezza, Collevento svettava al centro del paesaggio, con la punta dei suoi campanili a toccare il cielo dove era più blu e le invisibili viuzze strette che lo percorrevano come vene.
Per un attimo ho creduto di vederlo, in quell’angolo che un tempo era stato il mio avamposto di gelosia, affacciato sulla rupe a guardare le macchine che sfilavano.
Scacciai di corsa dalla testa quell’immagine e ricominciai a guardarmi intorno, finché la nostra monovolume non si fermò davanti alla Locanda Brilla.
Probabilmente ti eri accorto del mio smarrimento, così provai a improvvisare una conversazione che fosse perlomeno credibile.
Ti raccontai che quando ero piccola pranzavo spesso in quella locanda con i miei, la domenica, e che mi fermavo a guardare le scale che portavano alle camere come se fossero un corridoio verso un mondo sconosciuto, il mondo dei grandi.
Mi disegnasti un piccolo cuore passando il dito sulla sua guancia, dicendomi che finalmente avevo la possibilità di entrare anch’io in quel mondo.
Non sapevo nemmeno che quell’alberghetto si chiamasse Locanda Brilla, io lo avevo sempre chiamato dalla signora, poiché la proprietaria era una bella signora di Perugia che mi aveva vista crescere, e che forse a mio padre piaceva anche un po’.
Entrammo lasciandoci alle spalle lo scampanellio dello scacciapensieri appeso al portoncino, salimmo due scalette coperte da un tappetino di velluto blu e di colpo fui investita dal mio passato, ancora troppo difficile da accettare.
Gli stessi odori, la stessa polvere immobile sulle credenze di quella piccola trattoria. Una coppia stava pranzando al tavolo in fondo alla sala, sotto l’enorme finestra che si affacciava sui giardini comunali.
Mi chiamasti chiedendomi di salire in camera con te.
La Locanda Brilla aveva solo sei stanze, la nostra era la più grande. Alla finestra non c’era più il leggero velo bianco che vedevo dal muretto dei giardini, ora c’erano delle belle tende damascate color bronzo che una volta tirate non lasciavano intravedere nulla. La camera puzzava di chiuso.
Dopo aver disfatto il piccolo trolley, scesi alla reception per chiedere una teiera, per soddisfare quel vizio diabolico che aveva contagiato anche te.
Tornando in camera mi soffermai a lungo sulle scale, finalmente potevo sentire sotto i piedi il formicolio che saliva da quei gradini, i passi leggeri e spensierati dei ragazzi tedeschi, quelli goffi e lenti delle vecchie signore che pranzavano al tavolo accanto al mio, quello autoritario della signora di Perugia che scendendo dalle camere portava sempre un piumino per spolverare.
Quando aprii la porta della camera, mi si parò davanti agli occhi la stessa scena di sempre. Avevo voglia di vomitare.
Vedendomi entrare a mani vuote mi chiedesti come mai non avevo portato su la teiera per la nostra tisana serale, poi tornasti a poggiare lo sguardo sul televisore.
La ragazza del bar mi aveva detto che non avevano nulla che potessi portare in camera, ma che l’angolo bar della loro reception rimaneva aperto anche la notte, avrei potuto preparare lì la tisana.
Ti feci notare con disappunto che ti eri già piazzato davanti alla tivù, come quando eravamo a casa… e tu mi risposi che volevi riposarti.
Senza nemmeno darti il tempo di dire altro, presi la giacca e m’incamminai verso il bar centrale, informandoti che volevo andare a trovare i miei vecchi amici per vedere se qualcuno mi avrebbe riconosciuta, dopo tutto quel tempo.
Mi fermai alla balconata del belvedere, il sole stava scendendo velocemente formando ombre da giganti lungo la vallata e l’aria era pungente.
Su Collevento stava scendendo la nebbia, come ogni sera d’inverno che ricordassi da quelle parti.
Il mio cuore aveva iniziato a battere a un ritmo insolito, e nonostante il freddo, la mia fronte aveva iniziato a gocciolare, conoscevo bene ormai quei segnali.
Mi appoggiai alla ringhiera respirando profondamente, guardando nel vuoto davanti a me, fin quando la mia ombra mi sembrò troppo lunga per essere vera, come se qualcuno si fosse fermato alle mie spalle.
Mi girai di scatto ma non c’era nessuno. Mi guardai intorno disperata, cercando un segno, inseguendo un profumo, osservando i muscoli guizzanti di Yari che sparivano nella nebbia.
Avrei voluto seguirlo, ma le mie gambe non rispondevano ai comandi del cervello.
Lo lasciai andare via senza dirgli nulla.
Non raggiunsi mai il bar, me ne tornai in camera.
Senza parlare iniziai a spogliarmi lentamente, tu seguivi i miei movimenti con lo sguardo, e quando rimasi in slip e canottiera m’infilai nel letto. Avevo un’incredibile voglia di piangere, avrei voluto che tu mi stringessi senza dire nulla, ma tu hai rovinato tutto, come al solito.
“Facciamo l’amore, Angela, stavolta sarà tutto diverso.”
“Aspetta, Giordano, devo dirti una cosa.”
Che stronzo che sei.
Se mi avessi lasciato parlare probabilmente avresti capito tutto, invece no. Non mi hai dato il tempo di dire altro, iniziasti a baciarmi e accarezzarmi dovunque, sulla bocca, sul seno, poi giù, sempre più giù, sperando in quella reazione del tuo corpo che mancava da troppo tempo, e che io sapevo bene non sarebbe arrivata neanche quella volta.
Ti allontanasti da me girandoti sul fianco più comodo, ma senza bacio della buonanotte.
Non riuscivo a guardarti negli occhi, ma sono sicura che in quel momento il tuo sguardo fosse simile a quello di un coniglio che non riesce a montare la femmina. Ma non mi facevi pena, sai?
Mi chiedesti di perdonarti. Non ce la facevi, non ci riuscivi.
Iniziai a urlarti che volevo tornare a casa, che non ti sopportavo più, che era stato un grande errore andare lì, a Collevento.
Il ronzio sommesso del motore a metano della monovolume fu l’unico rumore che ci accompagnò da Collevento a Massa Morella.
Appena arrivati davanti al portone di casa, mi allontanai lungo la strada che portava alla stazione dei taxi, tu entrasti in ascensore e te ne andasti a dormire.
Qualche minuto dopo, suonavo il campanello di casa di Lorenzo come un’ossessa. E finalmente gli dissi tutta la verità.
C’era sua moglie, ma non me ne fregava nulla.
Mi fece entrare, preoccupato di quanto fossi sconvolta, e mi accompagnò in soggiorno indicandomi la poltroncina su cui sedermi, ma non ne volevo sapere.
Iniziai a inveirgli contro, insultandolo, affibbiandogli la colpa di quell’ennesimo fallimento.
“Sei uno stronzo, un pezzo di merda! Mi hai mandato lì per forza, io non ci volevo andare!”
“Ma cosa è successo?”
“È successo che non è successo niente, ecco cosa è successo! Mi ha portata fino a lì per rifiutarmi un’altra volta, mi ha umiliata di nuovo, ma che vuole da me?"
“Angela, ora ti calmi e mi racconti tutto, okay?”

“Smettila di mentire, Lorenzo. Mi sono stancata anche di te e delle tue bugie. E immagino che appena ti dirò che ho visto Yari avrai un’altra bella stronzata pronta per l’occasione da raccontarmi.”
“Cristo santo, Angela, ancora con questa storia? Yari è morto da dodici anni, pensavo avessimo superato da un pezzo questa cosa! Stai continuando a prendere le gocce o hai smesso un’altra volta?”
“Non ho bisogno delle tue gocce, io.”
Pronunciai quell’io in modo inequivocabile, talmente evidente che Lorenzo fu percorso da un forte tremore per qualche secondo, credo che improvvisamente gli fu tutto chiaro.
Mi prese per le spalle e iniziò a scuotermi con violenza, come se volesse tirarmi fuori dal petto le parole che non gli avevo ancora detto.
“Ma quante volte te lo devo dire che né tu né Giordano c’entrate niente con la morte di Yari? Era ubriaco quella notte, è stato un incidente!”
“Smettila, mi fai male. Lo so benissimo che Yari si è ammazzato perché era geloso di Giordano. Ci aveva visti insieme, quella sera.”
“Dimmi che non l’hai fatto, dimmelo!”
“Perché ti scaldi tanto? Sei tu che mi hai detto che l’Estridox avrebbe risolto tutti i miei problemi, no? E così è stato. Giordano deve pagare, deve pagare tutto. Mi ha rovinato la vita quel pezzo di merda. E’ tutta colpa sua, io ho sacrificato tutto quello che avevo per rimanergli accanto e per non rendere inutile il sacrificio di Yari, e lui mi ha ripagata con l'indifferenza, mi ha lasciata sola! Non è degno di amare nessuno, quello schifoso. Mi dispiace solo che appena smetterò di dargli le gocce, il suo maledetto uccello tornerà a volare come se niente fosse.”
“Da quanto tempo va avanti questa storia?”
“Da quando mi hai prescritto l’Estridox per gli attacchi di panico e me ne hai elencati gli effetti collaterali. Ti eri pure messo a ridere, non te lo ricordi? “Stitichezza, dolori addominali… Ah, dice anche che è un farmaco che può causare impotenza, ma tu non dovresti avere problemi!”
Ho fatto come hai detto tu, sai? Poche gocce al giorno, all’occorrenza dieci in più. Quel coglione pensava che la tisana tutte le sere gliela preparassi perché ero dolce e gentile, certo, come no… la mogliettina premurosa!” – risi rumorosamente.
Credeva di fregarmi, quell'idiota. Sono sempre stata più furba di lui, gliele ho messe dappertutto, anche tutte le volte che mi prendeva per il culo dicendomi che andava fuori per lavoro… ho sempre trovato il modo di fargliele prendere, nell’acqua, nel caffelatte, persino nella bibita del cinema.”

Ero eccitata e soddisfatta di me stessa, finalmente stavo raccontando a Lorenzo tutta la verità, non ne potevo più di tenermi tutto dentro.
Ti avevo reso impotente, Giordano.
Impotente di tradire me, di tradire Yari. Era quello che ti meritavi, lo capisci, vero? Ora capisci perché eri diventato stitico? Capisci perché spesso avevi la nausea? Tutto merito delle mie gocce.
Lorenzo mi lasciò le spalle e si voltò.
Si sedette sulla poltroncina dove solitamente mi sedevo io, con la testa china e le mani tra i capelli. Si tolse gli occhiali e li pulì con il bordo della maglietta, non hai idea di quanto fosse eccitante in quella posizione.
Ma anche lui, come te, volle rovinare tutto. Andò dalla moglie ad avvisarla che sarebbe uscito.
Mi misi a origliare.
Sentii che le diceva che non poteva continuare in quel modo, che doveva portarmi in clinica e lasciarmici per un po’.
Mi fece montare nella sua station wagon e iniziò a guidare senza dire una parola.
Ero già stata in clinica diverse volte qui, Lorenzo aveva voluto farmi visitare dal dottor Antinelli che era stato il suo insegnante anni prima. Si fidava molto di lui.
“Non ci voglio stare qui, portami a casa tua.”
“Non ti lascio sola, stai tranquilla.”
Lorenzo parlottò con il dottor Antinelli, che dopo qualche minuto si avvicinò a me e mi prese sottobraccio.
Lorenzo mi tranquillizzò, andava tutto bene, come sempre.
Mi disse di andare con lui, che era un suo amico, che non mi avrebbe fatto nulla di male.
“Io ti aspetto qui.”
Furono le ultime parole che gli sentii pronunciare, non lo vidi mai più. Mi ha mentito anche lui, come tutti voi.

Ecco, ora sai tutto. Qui è tutto così tranquillo, Giordano. Sento gli uccellini che cantano, alcuni addirittura si avvicinano, al punto che li posso quasi toccare. A loro non faccio paura, vedi? Ma mi manchi, sai? Mi manchi da morire.
Perché non mi riporti a casa? In fondo ora sto meglio e qui non ci voglio più stare...»

Giordano mi strinse forte per qualche istante, i suoi occhi erano gonfi di lacrime che si sforzava a non far uscire.
Mi aiutò ad alzarmi e mi accompagnò in camera, il pranzo mi stava aspettando sul vassoio.
Mi disse che sarebbe stato meglio se fossi rimasta in clinica per un altro po’, lui doveva partire e a casa non ci sarebbe stato nessuno che si sarebbe preso cura di me.
Mi promise che sarebbe tornato a trovarmi appena rientrato dal viaggio.
Mentre mangiavo la mia mozzarella, Giordano mi diede un bacio sulla fronte e se ne andò.
Ho saputo che è tornato a Massa Morella, dove una donna lo stava aspettando davanti all’edicola per andare a trascorrere il week end in campagna.

3 hanno detto:

Anonimo ha detto...

Silvano, quello della locanda. Brava, si fa leggere tutto da solo. Complimenti Nayan, hai dei numeri.

Enrica ha detto...

Grazie Silvanuccio... il tuo apprezzamento è il mio miglior premio :*

Anonimo ha detto...

Il secondo apprezzamento (fiquo) è mio.
Franco C.

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