15 dic 2010

Ti fidi di me?

Questo dicembre appena nato mi ansima sulle cosce. Un déjà vu in cui sono appesa su tacchi a spillo nella ghiaia di un parcheggio, a inspirare veleno in attesa di un uomo che quando viene non si ferma mai.
La tramontana mi strangola come il guanto di pelle nera sulla gola di una puttana.
Sono anche vestita come una puttana, truccata come una puttana. L’ha voluto lui.
Con la differenza che le puttane si pagano, mentre stasera sono io a dover pagare per questa stanza.

Ma non m’interessano i soldi, l’unica cosa di cui ho bisogno è riempirmi di quel piacere che mi servirà quando dovrò fingere di godere.
È sempre stato così, da quando eravamo di altri. Ed è così anche oggi che quegli altri non sono più gli altri di tre anni fa.
Pietro è il fallimento di una vita che si atteggia di essere perfetta.
Due uomini sulla quarantina mi passano accanto, sento puzza di alcol e sporcizia appiccicata alla pelle. Si avvicinano all’ingresso dell’albergo. Uno è alto, stempiato ma con i capelli lunghi legati in un codino. L’altro è grasso e calvo.
Spariscono velocemente dietro il portoncino di metallo, illuminato da due piccole lanterne ai lati.
È qui che abbiamo trascorso la nostra prima notte, in questo albergo che spaccia sesso tagliato male con le menzogne.
«Non innamorarti di me, io gioco troppo» - mi disse la mattina dopo.
Era tardi, mi ero già ammalata di lui.
Poi se n’è andato, senza motivo, senza spiegare.
Buio pesto, pomeriggi invernali ingialliti da mulinelli di foglie che urlavano solitudine.
È tornato. E vuole che tutto rinasca da qui, dov’era cominciato. Senza soldi, senza orgoglio, senza amore. Ma tutto quello che gli manca a me non serve.
Mi avvicino e suono il campanello.
«Ho prenotato una matrimoniale».
«A che nome?»
«Donati».
«Contanti o carta?»
«Contati» - ovviamente.
«Ecco qua, numero quattro. L’accompagno?»
«Conosco la strada».
Pietro apre la porta. Mi saluta, mi abbraccia, mi bacia il collo. Mi siedo sul letto. Posa sul pavimento la busta che teneva in mano, tira fuori tre bicchieri e delle bottiglie di vino.
Ne apre una e ne versa un po’ solo per lui, e senza dire nulla inizia a spogliarmi con una mano, mentre l’altra regge il bicchiere.
Nuda.
«Alzati».
Obbedisco.
Osservo il suo profilo perfetto mentre si toglie gli occhiali e li poggia sul comodino.
«Sei bellissima» - mi dice mentre lascia scorrere un dito sul mio addome.
«Dieci euro per comprare dei calici potevi anche spenderli».
Sorride.
Si alza, versa altro vino nel suo bicchiere, stavolta per me. Mi lascia cadere qualche goccia sulla pancia per succhiarla via, poi mi chiede di bere, lo faccio. Riempie ancora il bicchiere, mi bacia; sento la sua lingua infilarsi in tutte le mie paure, mentre l’alcol fa il resto. Bevo ancora, e poi ancora, e poi ancora.
Pietro lecca i miei seni, li succhia, li scopa con la lingua. Vorrei immobilizzarlo tra le gambe per non farlo più andare via.
Ma si allontana, e va di nuovo a cercare qualcosa nella busta.
«Ti fidi di me?» - mi chiede.
Rispondo di no.
Sorride di nuovo. Mi fa sdraiare su un fianco, lega i miei polsi uno sull’altro alla testiera del letto, mi mette una benda nera sugli occhi.
Vuole giocare.
I suoi passi che si allontanano, la porta che cigola, poi si richiude, il rumore della busta di plastica.
E ancora il vino che scende nel bicchiere, la scintilla di un accendino e qualcosa di bollente che mi scivola lungo la schiena.
Mi contorco un po’ ma mi adeguo presto. Deve essere cera. Un’altra candela, altra cera, una curva. Un’altra candela, ancora cera, ancora una curva.
Immagino una “P” sulla schiena.
Puttana.
Puttana di cera. Da modellare, da scolpire.
Mi fa girare a pancia in su. Faccio fatica a tenere quella posizione, le braccia legate non mi fanno poggiare le spalle.
Sento il rumore deciso della sua cinta che si apre, mi spalanca le gambe e mi entra dentro con un colpo secco.
Mi mette una mano davanti alla bocca. Due spinte profonde, poi si ferma.
«Ti fidi di me?»
Faccio cenno di no con la testa.
Ricomincia a spingere, una, due, tre volte, sempre più forte, va sempre più giù. Lo sento nello stomaco. Mi lascia libere le labbra, sposta la mano sui capelli, tirandoli indietro, mi fa male.
«Ti fidi di me?».
«No».
Ne voglio ancora. E ancora più forte. Credo di morire. Vorrei morire.
Si ferma e comincia a scivolare piano, dentro e fuori, fuori e dentro come un coltello nel burro ammorbidito dal caldo estivo.
Dentro e fuori, come se stesse insegnando a qualcuno come si scopa una donna. Immagino il suo meraviglioso cazzo lucido, orgoglioso e fradicio, che crudelmente mi riempie e ancora più crudelmente mi svuota, corpo e anima.
Lo imploro di togliermi la benda dagli occhi, voglio vedere i suoi occhi che si chiudono e la sua bocca che si apre. Risponde di no.
Non si fida di me.
Dentro e fuori, per vivere fuori e morire dentro; mi prende il mento, mi fa voltare, sento dolore al collo; m’infila due dita in bocca, esplora anche quello, di buio. Le succhio e lascio la bocca spalancata.
Aspetto che mi riempia la gola mentre le lacrime già mi riempiono gli occhi.
«Ferma così».
Il letto si alleggerisce, Pietro si alza. Ancora rumore di mani che frugano nella busta di plastica.
Assaggio il sapore del cotone, un laccio, forse un’altra benda. Me la lega dietro la testa, spinge troppo sui bordi della bocca. Sento dolore.
Mi bacia una guancia. È un bacio pulito. Quasi una richiesta di perdono. Quasi un addio.
«Ti fidi di me?»
Non rispondo più.
Passi che si avvicinano.
Puzza di alcol e di sporcizia appiccicata alla pelle.
Provo a divincolarmi, provo a urlare. Provo a morire. Ma non ci riesco.
«Siamo pari» - la voce di Pietro si allontana - «adesso non mi rompete più i coglioni».
Rumori nella stanza. La porta che cigola ancora, e ancora si chiude. Voci maschili che parlano una lingua che non conosco, scarpe pesanti che cadono sul pavimento, monete che tintinnano nelle tasche. Li immagino entrambi con il maglione ancora addosso e il cazzo all’aria.
La puzza di alcol si avvicina, rumore di uno sputo. Mi girano di nuovo su un fianco, sento un dito ruvido e grasso entrarmi dietro.
«Tu lì» - dice uno dei due in un italiano stentato, mentre mi entra nel culo. Grugnisce come un maiale. Sento la sua pancia sudata sbattermi sulla schiena.
«Adesso tolgo questa» - mi sussurra nell’orecchio l’altra voce toccando la benda nella mia bocca. I suoi capelli mi solleticano il seno - «se urli t’ammazzo» - e senza darmi tempo nemmeno di rispondere cerca d’infilarmelo in bocca. Tengo le labbra serrate, mi arriva uno schiaffo. Lo lascio entrare, mi scopa in bocca per minuti interminabili prima di venirmi in gola, mentre l’altro continua a spingermi dentro tutto il suo schifoso orgasmo.
Voglio vomitare.
La bocca torna vuota.
Vomito e la riempio di nuovo.
Poi, non sento più niente. Solo puzza. Solo dolore. Dentro e fuori.
Rumore di lacci che si annodano, rumore di monete nelle tasche dei pantaloni.
Vino che scende nei bicchieri.
Puzza di alcol e di sporcizia appiccicata sulla pelle che si avvicina per l’ultima volta. Alito caldo nelle orecchie. Nessuna pietà per me, solo parole per Pietro. Ancora una volta, tutto solo per Pietro.
«I debiti di gioco vanno pagati. Sempre».

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