11 ago 2010

D'istinto

In questa cella il tempo è stato lento, sì, ma breve. Perché gli anni sono corti dove manca lo spazio. Fuori di qui le ore ci spaventeranno con la loro durata, i minuti si allungheranno e dovremo spingere la lancetta per farle completare il giro. Lo spazio che avremo davanti sarà una prateria sconfinata di ore, e i minuti: mandrie allo stato brado. Il tempo sarà una pampa argentina dove puoi uccidere una bestia, cucinarne un pezzo e avere solo l’obbligo di seppellire la carcassa. Così saranno i minuti, ne addenteremo qualche secondo, scaveremo un buco e ci seppelliremo l’avanzo non consumato. 

Ce la faremo, vedrai, andremo via lasciandoci alle spalle tutto questo schifo, gli obblighi, gli ordini, quest’orrenda musica che ci sveglia tutte le mattine; lasceremo indietro i pentoloni di cibo immangiabile, i tubi verdi per lavarci, le carezze ipocrite di questi uomini in divisa che ci offrono la loro compassione, e tutte le squallide abitudini che non abbiamo potuto fare a meno di prendere. 
Le abitudini, sì, le abitudini. Siamo destinati ad abituarci a tutto, anche alle cose peggiori. Cos’altro avremmo potuto fare, lasciarci morire? E a chi sarebbe importato?
Al diavolo. 
Mi sembra ieri, invece sono passati già nove anni.
Tu eri lì, con gli occhi spalancati sul tuo piccolo mondo, l’unico che conoscevi, l’unico in cui non avrei mai voluto farti vivere. Non hai idea di quanto mi sentissi in colpa, se solo fossi stata un po’ più cattiva probabilmente non ci saremmo mai trovati in una situazione simile.
Ricordo perfettamente quando ti parlavo della vita fuori da quelle quattro mura, della libertà.
“Senti che bel suono che ha, LIBERTA’!” – ti dicevo scandendo forte lettera per lettera, provando a farti capire che sapore avesse, ma tu mi rispondevi sempre che stavi bene come stavi, che la tua vita ti piaceva e non avresti voluto viverne una diversa. Poi giravi le spalle e ti mettevi a dormire, almeno era quello che volevi farmi credere. Facevi sempre così quando il discorso non ti piaceva.
Non potevo fare a meno di pensare che fossi un codardo, mi sono tormentata per anni chiedendomi da chi avessi ereditato tutta quella vigliaccheria. Ma come si fa ad aver paura dell’unica cosa veramente nostra? Ricordi cosa ti dicevo ogni volta che parlavamo della libertà?
“Sei forse uno di quegli sciocchi gatti che inarcano la schiena e addrizzano il pelo quando si guardano allo specchio?” 
E’ vero, alcuni si rassegnano, vivono tutta la vita senza speranze, senza sogni, senza desideri, proprio come quella stronza che dormiva di fronte a noi; era lì dentro da anni, mangiava cose diverse e dormiva sola, mentre noi eravamo costretti a dividere il nostro spazio anche con chi non volevamo avere accanto. Credeva di essere diventata importante, ci guardava con aria di sfida quando sbadigliando spalancava la bocca di fronte a noi.
Perdonami, io non ce l’ho mai fatta. Non potevo accettare di vivere da prigioniera senza colpe.
Avrei potuto sopportare di osservare il mondo a strisce se avessi avuto qualcosa da pagare, ma così no, quella non era vita. Era un prezzo troppo alto da pagare nonostante tutto l’amore che provavo per te.
Chissà cosa avrà pensato quella vecchia stronza quando sono scappata. Mi diceva sempre che ero matta, che non ce l’avrei mai fatta ad andarmene da lì, e che se anche ce l’avessi fatta non sarei stata in grado di sopravvivere in clandestinità, soprattutto in un Paese come il nostro, perché tanto mi avrebbero catturata di nuovo e magari mi avrebbero ammazzata, e secondo lei me lo sarei anche meritato. Era una dei tanti entrati nella schiera dei rassegnati. 
Quando quella notte ti ho detto che me ne sarei andata sei quasi svenuto, la tua prima reazione fu di chiedermi che fine avresti fatto tu, eri terrorizzato dall’idea di rimanere solo. E io non me ne sono resa conto, eccitata com’ero dall’idea di riprendermi quello che mi era stato tolto; non mi accorgevo che quella vita che inseguivo e che ti costrigevo a voler vivere non era la tua.
“Io non vengo” – mi hai detto con gli occhi tremanti.
“Sei uno stupido!” - ti ho urlato, - “Muoviti! Alzati e vieni con me!”
Ma non ti sei alzato, sei rimasto immobile a guardarmi per qualche interminabile secondo, poi ti sei girato e ti sei messo a dormire.
Ti ho preso per il collo, provando a trascinarti via con la forza, ma il destino ha voluto che in quel momento dovetti scegliere tra l’affrontare il nostro carceriere che si avvicinava, oppure continuare a lottare contro la tua sciocca paura. Beh, il mio egoismo ha scelto per me.
Non credere che in questi nove anni ti abbia dimenticato, mi sono chiesta continuamente come fossi cresciuto lontano da me, ho sempre sperato che ci fosse qualcuno a prendersi cura di te, magari proprio quella vecchia stronza. Ho lottato contro i miei sensi di colpa che comunque non sono mai stati abbastanza forti per farmi tornare indietro.
No. Non rimpiango di essermene andata, non ho mai cambiato idea.
Vivere nascosta da tutto e da tutti non è stato facile, sono scappata spesso così come spesso sono stata costretta ad essere molto più crudele di quanto avrei voluto, ma è stato necessario per sopravvivere.
Almeno mi è servito per capire meglio gli uomini, ho smesso di giudicarli. Quando entriamo in meccanismi più grandi di noi la spietatezza e il cinismo diventano i migliori compagni di viaggio della paura.
E’ sempre lei a farci commettere gli sbagli più grandi, il sentimento dominante delle nostre vite. Anche io, sai, anche io che parlo tanto di coraggio e indipendenza mi sono resa conto che tutto quello che ho fatto l’ho fatto in funzione della paura. 
Paura di trovarmi nuovamente dietro le sbarre, paura del contatto con qualunque altro essere vivente, ed ho capito che sbagliavo quando ti giudicavo perché non sono affatto diversa da te.
L’unica differenza tra noi è il mezzo di trasporto, non la strada che percorriamo.
All’alba di stamattina ho sentito di nuovo quella musica, il mio primo istinto è stato di scappare il più lontano possibile.
Ma poi ho pensato a te ed ho deciso di rimanere lì senza preoccuparmi delle conseguenze.
Mi sono nascosta dietro un grosso cespuglio scrutando i movimenti del vecchio uomo in divisa che apriva i portelloni dei camion, mi aspettavo di veder scendere la vecchia stronza circondata dai suoi scagnozzi, ed invece eccoti lì, guidato dagli anelli di una catena che ti avvolge il collo, che cammini con passo lento e fiero mentre ti avvicini all’albero più imponente della radura. E io non posso fare altro che guardarti orgogliosa da dietro un cespuglio.
Perché nonostante tutto sei bellissimo, sei la cosa più bella che i miei occhi stanchi abbiano mai visto.
Se fossi veramente libera come ho pensato per anni di essere ora ti raggiungerei anche solo per guardarti negli occhi.
Ti sei accontentato di un pasto al giorno, un tubo verde, un po’ di musica di cattivo gusto e qualche carezza ipocrita ogni tanto, mentre io ho vagato lungo la prateria dello spazio e del tempo, addentando tutti i secondi di tutti i minuti trascorsi in questi nove anni, vivendo sempre nella paura di non farcela, nel terrore che tu potessi pensare che io avessi smesso di amarti, ma questa è la mia vita.
La tua ora d’aria è terminata e ti riaccompagnano nella tua gabbia, enorme e pulita, la stessa in cui nove anni fa ho visto per l’ultima volta quella vecchia stronza. Bella quanto vuoi, ma pur sempre una cella.
Ti allontani guardandoti distrattamente intorno, arricciando il naso in uno sbadiglio. Forse non hai nemmeno immaginato che la tua vecchia madre fosse a pochi metri da te,  forse non sei nemmeno più capace di distinguere il mio odore.
Strofino le unghie sul tronco sul quale sono appollaiata, aspettando nascosta che i camion del circo spariscano all’orizzonte lungo la strada polverosa. 
Non so se augurarmi di rivederti, prima o poi. 
Buona fortuna.

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