11 ago 2010

Lisca di pesce

Te n'eri andato. Anzi, ti avevo mandato via. E mandarti via alle cinque del mattino è stato come impugnare un pugnale e aprirmi il petto. Il tonfo della porta blindata non aveva fatto abbastanza rumore, il silenzio assordante che era seguito nella mia testa urlava molto di più.
Sono salita sul divano e ho iniziato a cantare a squarciagola la nostra canzone e il mio stato confusionale.
Non ero più abituata a sentirmi così, convinta com’ero di potermi ormai dominare.
Sono salita su quel divano perché avevo bisogno di guardare il pavimento dall’alto per illudermi di essermi rialzata, ed invece ero ancora in ginocchio, ma ho avuto il tempo di vedere gli ultimi rantoli di quella carcassa vuota che era la mia anima, rosicchiata dalla presunzione.
Urlavo, si, urlavo fregandomene che alla finestra bussasse già l’alba, cercando di divincolarmi dalla catena che legava le mani alla mia insoddisfazione, sperando di poterne spaccare gli anelli attraverso le vibrazioni delle mie corde vocali.
Ma più urlavo più il silenzio diventava imponente, e inghiottiva tutto ciò che avevo intorno, anche lo sferragliare della catena.
Tutto tramava per farmi rimanere sola con la massa informe e scura di pensieri che avrei voluto sfilarmi dalla mente come si fa con le lische di pesce e riuscire a metterli in fila indiana davanti ai miei occhi, dargli un senso, interpretarli, ma appena provavo a trasformarli in parole la mia lingua si rifiutava di articolarle.
Non so dire quanto sia durato, sono state ore lunghe come secoli ed impalpabili come attimi, e più il tempo passava più avrei voluto fermarlo, perché non ero pronta ad affrontare la luce del giorno.
Mi sono messa a letto mentre il calore del sole mi richiamava alla vita che mi ero costruita, sperando che il sonno arrivasse a liberarmi, ma il peso insopportabile delle mie palpebre esauste non bastava a spegnere la luce.
Cos’era che stavo guardando con così tanta insistenza? Era te che guardavo? O solo l'idea che mi ero pian piano costruita intorno?
Avanzavo a tentoni inciampando continuamente, e ogni volta che mi rialzavo i segni erano più evidenti e facevano più male; dio solo sa quanto avrei voluto capire cosa mi stava succedendo, non fosse altro che per provare a spiegarlo a te e rendere a me meno amaro il sapore della sconfitta, ma per quanto mi sforzassi non ci riuscivo, l’unico risultato che ottenevo era di sentirmi ancora più patetica. Come quando ti cade la cenere sulle coperte e provando a toglierla la spargi ancora di più.
L’unico modo per non sporcare il letto di cenere è evitare di fumarci dentro.
Sono passati diversi mesi da quella notte, eppure quando apro le mani riesco ancora a vedere le ferite lasciate dalle mie unghie mentre stringevo forte i pugni cercando una risposta.
Le tengo sempre aperte, ci butto sopra un po’ di sale ogni tanto, e così farò in eterno, o almeno finchè non avrò imparato che non devo farmi male per ricordarmi di non soffrire più.

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