11 ago 2010

Odore di finocchio e polvere da sparo

“Guardami bene Carlotta” - mi diceva sempre la nonna, piccola nel suo vestito a fiori - “per fare una pasta e ceci come si deve, bisogna sbucciarli uno per uno.”
Osservavo le mani nodose muoversi fra i legumi che sgusciavano lucidi fuori dalle bucce. E’ un rito domestico che mi piace ancora oggi, e quel tempo ritorna ogni volta con gli stessi odori a prendersi gioco di me, a intrecciare luoghi e lineamenti di un passato spensierato con desideri e paure di un presente orfano di illusioni.

Quando ero piccola sognavo di aprire un ristorante con la nonna, dove io sarei stata la cassiera e lei la cuoca; ogni volta che andavo a mangiare fuori con la mia famiglia, sempre nella stessa trattoria, rimanevo ipnotizzata a guardare la figura imponente e rassicurante di Pia, che prima di andare via tirava sempre fuori dal barattolone che spuntava da sotto alla cassa qualche caramellina di zucchero; da grande volevo diventare proprio come lei.
Ero sicura che io e la nonna insieme avremmo avuto lo stesso successo di Pia e Marcello, perché tutto il paese sarebbe venuto a mangiare la meravigliosa pasta e ceci di casa Lai; il nostro ristorante lo immaginavo caldo ed accogliente, con una piccola sala ammobiliata da tavoli di legno scuro coperti da tovaglie a quadrettoni rossi, e un bel camino in fondo alla stanza, sempre acceso per asciugare le macchie di umidità che infreddolivano tutti quegli animi tristi che vedevo aggirarsi di notte, quando i bar abbassavano le saracinesche e i cani non abbaiavano più.
Ancora oggi quando ho bisogno di sentirmi coccolata ripenso a quei giorni di vacanza, all’odore di muffa e vino che usciva prepotente dalle cantine, ai pomeriggi passati sotto l’enorme pino a parlare di sogni e speranze, alle serate in cui sentivo forte nelle narici il profumo del finocchio lasciato a seccare in grandi bacinelle, fuori dalle piccole case di tufo.
Camminavo lungo i vicoli stretti che contrastavano con l’enorme coperta stellata che mi sovrastava, un cielo trafitto da migliaia di piccole ma luminosissime stelle, e guardando in alto tutto assumeva una prospettiva diversa, ci sarebbe stato un domani migliore, ci credevo talmente tanto che quel domani migliore arrivava tutti i giorni, ogni giorno con un volto diverso.
Vorrei che il tempo si fosse fermato lì, nell’eterno fermo-immagine di una chiesa dalle pareti scorticate, addormentata sulla rupe che sovrastava il grande lago.
Invece la mia vita ha improvvisamente curvato, seguendo un’immaginaria linea che finiva nel nulla, passando attraverso gli incroci del rifiuto, i passaggi a livello della ribellione; gli anni del conflitto tra un corpo di madre e uno spirito troppo acerbo per poter essere ingabbiato in un compromesso.
Un attimo, un istante, un fermo-immagine come quello della chiesa.
Un colpo solo, preciso e puntuale come un imprevisto quando sei in ritardo.
Quando ho la nausea di questo pavimento a scacchi guardo fuori, e tutto mi sembra terribilmente immobile e tranquillo per poter essere reale, tutto. E’ una libertà con il guinzaglio la mia, capace di correre a perdifiato per pochi istanti per poi rimbalzare violentemente indietro, e tornare in trappola dietro le sbarre dei miei rimpianti.
Mi chiedo a cosa ci si debba aggrappare quando persino i ricordi ti tagliano le pareti dell’ultimo pezzettino di anima che ti è rimasto, e allora ripenso alle parole del mio adorato Dante quando diceva che non c’è nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria, e capisco che forse è arrivato il momento di scrollare dalla mia camicia consunta gli ultimi granelli di un passato pieno di errori, che comunque non tornerà.
In momenti come questo mi chiedo se ne sia valsa davvero la pena, se tutto quello che è successo sia realmente servito a qualcosa, ma non credo che una risposta, di qualunque tipo, cambierebbe le cose.
Così aspetto che arrivi Alice, ancora troppo ingenua nei suoi trent'anni, per leggere nel suo sguardo curioso la mia stessa malinconia, sperando che almeno a lei la vita riservi qualcosa di meglio che un cielo a strisce e un pugno di ideali derisi dal tempo.
Questo maledetto tempo che è un po’ come un netturbino, non vedi l’ora che passi per portarsi via la tua immondizia, ma dopo che è passato ti accorgi di aver gettato via una cosa importante e vorresti corrergli dietro per riprendere dal secchio quello che hai buttato.
Mi guardo intorno chiedendomi se merito tutto questo, in fondo quello che ho fatto, l’ho fatto perché credevo in un mondo migliore, l’ho fatto per tutti, anche per Alice che ora mi guarda con quella sua espressione che ormai da ventotto anni mi chiede soltanto “perché?”
Poi metto la testa sotto la sabbia per non sentire la risposta.
Le mie compagne reclamano la meravigliosa pasta e ceci di casa Lai che ormai boccheggia sfinita sul fornelletto da campeggio, all’angolo della nostra cella; se potessi tornare indietro, forse aprirei quel ristorante.
O forse no.

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